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ROMANZO CRIMINALE (leggi la recensione al libro e l'intervista a Giancarlo De Cataldo ) |
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“Finalmente - come mi ha detto una volta Francesco Rosi in relazione a Un eroe borghese - ci fanno fare di nuovo questo cinema. Speriamo che si possa dare voce a tutti gli scheletri che bussano da dietro alle porte per vedere raccontate le loro storie." (Michele Placido)
Il termine “romanzo” all’interno di un titolo cinematografico suona, oggi più di ieri, singolare. Assume perfino un tono di sfida aperta, con mille variabili in gioco, se il riferimento diretto è ad una tra le opere letterarie più importanti pubblicate in Italia negli ultimi anni. L’accostamento alla parola “criminale”, inoltre, porta direttamente nel territorio dei titani (Peckinpah, Leone, Coppola, Scorsese), ad un modo di pensare il cinema in forma di veicolo conduttore di grandi narrazioni. Cinema/spettacolo di massa capace di elevare nella visione i corpi, le azioni, la scena, al grado di elementi “da romanzo”. Pratica che l’industria odierna presuppone superata, chiusa dagli steccati di uno spettacolo sempre meno ambizioso, “ridotto” non solo perché predestinato al circuito televisivo ma proprio per il suo reiterato invalidare il binomio intrattenimento/impegno. “L'idea di raccontare due decenni difficilissimi della storia italiana attraverso un punto di vista criminale è un'idea geniale di De Cataldo.” sostiene il produttore Riccardo Tozzi. “Ogni retorica e ogni velo ideologico cadono di fronte a questa decisione. I film che si sono tentati di fare sulla politica degli ultimi anni sono stati tutti viziati da un punto di vista ideologico e quindi giudicante: di per sé stiracchiato e sbagliato. Così come errato e sbagliato era il punto di vista didascalico e documentaristico.” Dalla pagina allo schermo, il titolo non è cambiato, ma questa non è l’unica nota positiva. Dopo una lunga attesa, tra molte voci di corridoio e posticipazioni legate a una lavorazione inevitabilmente impegnativa, il film che Michele Placido ha tratto dal libro di Giancarlo De Cataldo è approdato nelle sale con il peso di un oggetto in grado di rompere la routine del nostro cinema. C’è la fila per vederlo: buon segno. Due ore e mezza che raccontano l’epopea banditesca del Libanese (Pierfrancesco Favino), di Dandi (Claudio Santamaria), del Freddo (Kim Rossi Stuart), tre ragazzi di borgata che sognano di prendersi Roma pistole in pugno. Un sogno impossibile, macchiato di sangue vero nell’Italia della Prima Repubblica, quando intorno alla metà degli anni Settanta, dalla fusione di alcuni gruppi malavitosi di quartiere, sorse una vera e propria holding del crimine (un “Antistato”, secondo la definizione del giudice Libero Mancuso) destinata a far scalpore per le sue imprese feroci e per i preoccupanti punti di contatto con gli ambienti della destra eversiva, gli uomini-ombra dei servizi segreti, i giochi della finanza internazionale. Il prologo e l’epilogo innestati in fase di sceneggiatura (doppio, sentito omaggio al Pasolini di Accattone, al Truffaut de I Quattrocento colpi) mostrano i protagonisti minorenni, alle prese con il furto di un’automobile, la fuga verso il litorale in una notte di pioggia e la scelta degli alias da “duri”. L’alba li trova già calati nella parte, con gli sbirri alle costole e il Libanese che per amicizia si ritrova zoppo a vita. Amici e complici per sempre, fino alla caduta, al capolinea di tutti i sogni. Diversi nel carattere ma non nell’istinto, nella voglia/bisogno di emergere ad ogni costo, poi di sopravvivere (“normalità” tragica) sapendo che se il carcere ti ha già ucciso una volta, la morte fisica non può essere peggiore. Si armano, radunano “soldati”, tolgono di mezzo i vecchi squali, stringono alleanze con il clan di Zio Carlo (Gigi Angelillo), fanno fumare le palle al giovane commissario Scialoja (Stefano Accorsi), uomo in apparenza tutto d’un pezzo, ma anche rampante, e poi attratto da Patrizia (Anna Mouglalis), la donna del Dandi. Un Grande Vecchio con la gobba li chiama in causa quando si tratta di trovare il luogo in cui le Brigate Rosse nascondono Aldo Moro. Si fa risentire poco prima dell’attentato alla stazione di Bologna, giusto per ordinare il “licenziamento” del passeggero X a colpi di pistola munita di silenziatore. Intrighi di potere e manovalanza di strada, sapete come vanno le cose: tutta la Storia è un groviglio di fili che collegano i Palazzi ai marciapiedi. In questo film, suddiviso in tre capitoli che portano i nomi di battaglia dei capi (anzi, degli “Imperatori”, per usare un’immagine cara al Libanese), c’è un cast artistico/tecnico di altissimo livello al servizio di un regista che per la prima volta ha scelto di spingersi al di là della maniera. Ci sono sequenze in cui l’orchestrazione delle inquadrature onora il western (la fine del Freddo) o il cinema di Brian De Palma e Michael Mann (l’omicidio a Trinità dei Monti; la morte del Nero/Riccardo Scamarcio, che cade e si ritrova faccia a faccia con un manichino). Non si tratta beninteso di un giochetto di ricalchi, ma della conferma degli sforzi del regista di girare qualcosa di onesto, sovente rifiutando il semplice artificio emotivo. Ne risulta una pellicola spettacolare sul piano della pura fruizione, e al tempo stesso impegnata a misurarsi con la memoria non solo cinematografica. Un lavoro di concentrazione espressiva che dà ragione a Placido quando dice: “Credo che intrattenendo il pubblico, gli si possano raccontare storie importanti che siano in grado di formare la coscienza sociale e politica di questo paese." Ultime note: 1) La bravura degli attori coinvolti nel progetto (tutti, davvero, e su tutti Favino) è un sano manrovescio alla cecità di certi produttori nostrani. 2) Romanzo Criminale è altra cosa rispetto al libro, e anche questo è un bene. Valida l’osservazione di De Cataldo (occupato a leggere una sentenza anche per finzione in un breve cammeo): "Se si fosse scelta la strada di un adattamento pedissequo si sarebbe tradito lo spirito del libro.”
Nino G. D’Attis |
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