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RUSS MEYER: L’OCCHIO NEL RITUALE AUTOEROTICO |
«Tu sei il primo della lista ed io comincio sempre dall'inizio» (da Faster Pussycat! Kill! Kill! di Russ Meyer)
Più importante di Renoir, forse. Di Rossellini sicuramente. Prima di Russ Meyer's Pandora Peaks (2001), da tempo, non gli era più stata offerta l’occasione di scoprire nuove Babette Bardot, Astrid Lillimor, Tura Satana. Scoprire/mostrare godardianamente il corpo del cinema, osando lo sguardo in macchina di una bambola di carne (o di silicone, come la Pandora dalle poppe gonfiate in sala operatoria). Da tempo, perché nel frattempo l’industria del cinema aveva radicalmente cambiato volto, strategie, target di riferimento, fino ad approdare all’odierna ricetta dell’aria fritta. Destino simile a quello del suo grande mito italiano Fellini. Facile sostenere che i due avessero in comune l’ossessione per le tette oversize. Non era tutto lì il sogno di celluloide di Meyer (nel modo in cui non lo era quello di Fellini, come sappiamo). Non erano tutte lì le ossessioni di un artista entrato nell’immaginario Pop(ular) dalla porta di servizio (ancora oggi, qualcuno continua a preferirgli il meno ‘camp’ Radley Metzger, autore di Dark Odissey e The Alley cats), poi finito nel salone della futura memoria in cui ballano Warhol, Marilyn (Chambers? Monroe? Manson?) e un Sid Vicious che pugnala al cuore Sinatra per rendere perpetuo il mito di ‘The Voicè. I colori, le forme, i suoni (Igo Kantor, Stu Phillips, gli Aladdins, i Bostweeds), i set (poveri di budget e al tempo stesso naturalmente sconfinati, se pensiamo alla grandezza scenografica della Death Valley), i titoli che hanno influenzato almeno due generazioni di rockers, quindi l’immaginario di colleghi insospettabili (il Ridley Scott di Thelma & Louise). I 105 centimetri di circonferenza toracica delle attrici per un manifesto di cine-bosomania: sfida alle leggi della gravità, tensione verso un mix di western, road movies, humour a tratti nerissimo (esagerazione biologica come ingrediente di un esorcismo caricaturale del disfacimento del corpo, di una scadenza ineluttabile) che a posteriori fa brillare il suo marchio su tutta la produzione fumettistica dei tascabili “zozzi” italiani dei ’70 (Pompea, Candida, Vartàn, le “fiabe per adulti molto liberamente tratte da...”). 1959-1979: trenta film in una ventina d’anni per l’uomo che definì se stesso “Un Fellini di campagna”. Autoironia e consapevolezza. Il mondo disegnato da Will Eisner nel cuore. L’idea di passare all’hardcore non lo sfiorò mai, soprattutto quando ebbe inizio la vera e propria ascesa dell’hardcore, con il passaggio dalla clandestinità ad un regime di (semi)libertà delle luci rosse. Russell Albion Meyer flirtava con il desiderio di assistere alla cerimonia autoerotica di una donna amplificata da una musicalità del montaggio, fino a inseguire la parabola debordante dell’universo cinema, dello sguardo che ha cognizione di cogliere un volume corporeo e di contribuire alla metamorfosi dell’oggetto filmato in fantasma dell’oggetto. Tifava (riconoscendo evidentemente i segni di ciò che Baudrillard indica come “transustanziazione del corpo in fallo”) per le strippers leggendarie come Busty Heart, la donna che, durante un’esibizione in un club uccise uno spettatore dopo essersi liberata della camicetta. Arresto cardiaco in un’epoca in cui “(...) gigante era lo schermo del cinemascope, così come le protuberanze del paraurti della Cadillac”, scrive Carlo Masi nel suo libro That’s America, parlando del Museum of Big Breast, il museo delle tettone in California. Missili di carne nell’era della guerra fredda, della paranoia dei razzi veri e della fissazione censoria di quel codice di produzione Hays che ad Hollywood cadrà soltanto nel 1968. Psicotronico. Sovversivo. Un’intera filmografia di opere giocosamente contro. Le sue ragazze selvagge che seducono/divorano tutto ciò che incontrano, sono agitatrici della falsamente quieta coscienza collettiva, di una presunta innocenza americana che oggi si vorrebbe violata unicamente dai fatti dell’11/09/2001. Sesso e morte da cartoon. Ultradonne amazzoni, divinità che nella vita privata del regista rispondevano alla regola del “Trovale, filmale, scopale, dimenticale” e sullo schermo schiacciavano simultaneamente il partner di turno e lo spettatore seduto in poltrona, il tizio qualunque affondato nel più bel buio di tutti i tempi. Creature disarmanti con il corpo iniettato di celluloide, inquadrato dall’occhio dell’eterno adolescente che a quattordici anni si esercitava con una Univex 8 millimetri da 9,95 dollari regalatagli dalla madre. Lo stesso che, nel 1970, avrebbe fornito a Patton, il generale d’acciaio di Franklin J. Schaffner del materiale documentario girato durante la (vera) guerra, sul fronte francese, in mezzo a (veri) soldati morti in trincea. Sette gloriose statuette al film (sceneggiatura di Francis Coppola), un paradiso di tette a Russ, nell’anno 2004, prima che l’inverno alle porte costringa le ragazze a rivestirsi e gli studenti di cinema a riaprire i libri che parlano solo di Renoir e Rossellini. Nino G. D’Attis
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