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SIN CITY |
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Sono seduto all’interno di una saletta-loculo ricavata dal ripostiglio delle scope di un ex cinema oggi elevato allo status di multisala: le poltrone fanno schifo, lo schermo è poco più grande di quello del mio pc ma non importa, quando le luci si abbassano mi sento pronto ad entrare nella cupa Città del Peccato ricreata dall’inedita coppia Rodriguez/Miller. Pioggia sporca e appiccicosa, vicoli sordidi, degrado morale ovunque, pupattole armate fino ai denti che ricordano (anzi, hanno anticipato fumettisticamente) le Gangs of New York scorsesiane. E poi sicari, psicopatici e bestioni subumani che a volte diventano giustizieri assetati di vendetta. Bianco e nero senza grigi e mezzitoni, con rare macchie di colore. Giochi di luce perfetti. Letteratura di altissimo livello che rimanda direttamente ai nomi di Mickey Spillane, James Ellroy ed Edward Bunker. Sin City (abbreviazione di Basin City) è la notte senza fine, l’inferno sulla terra, la dimora di vittime di un sistema malato e di autentici campioni della perversione individuale. Marv, Hartigan, Dwight, Gail, Jackie Boy e Kevin il cannibale vivono qui. Vedi una coppia teneramente abbracciata sul terrazzo di un grattacielo, i due si baciano, poi arriva lo schiocco di un colpo al silenziatore e lei si accascia: Ok, benvenuto in città. Vedi l’ultimo poliziotto onesto sulla faccia della terra nel suo ultimo turno di lavoro prima della pensione: lui si gioca tutto per salvare una ragazzina prigioniera di un pedofilo che ha la fortuna di essere figlio del solito pezzo di merda molto potente. Vedi una bella e una bestia in un letto a forma di cuore: lei è morta, lui ha intenzione di restare vivo e a piede libero per vendicare l’unica ragazza che l’abbia amato un po’ dopo sua madre. Il regista di Dal Tramonto all’alba e il grande autore di Batman – Year One, Elektra, Daredevil, Give me Liberty, Hard Boiled ed altri capolavori del fumetto contemporaneo firmano (con un piccolo aiuto di Quentin Tarantino – nella sequenza in auto tra Clive Owen e Benicio Del Toro - strombazzato alla grande durante tutto il lancio pubblicitario) la trasposizione cinematografica delle storie noir pubblicate in patria dalla Dark Horse Comics a partire dal 1991 e in Italia da Magic Press. Riprese su schermo verde ad Austin, Texas (nel ranch di Rodriguez), scenografie ricreate in digitale, un cast di grandi attori e caratteristi. Incasso Usa di 28 milioni nel primo week-end. In Italia ha buttato giù come niente l’ultima cartoonata di George Lucas ed è commercialmente logico che si annuncino ben due sequel per il biennio 2007/2008. Guardo il film e penso che Mickey Rourke è Marv, non si discute. E Jaime King è Goldie/Wendy, e questa è esattamente la città che ho visto nelle tavole di Frank Miller. I dialoghi sono quelli, avranno al più limato la punteggiatura. Sono sicuro che il numero di cerotti che tappezzano il corpo di Marv sia giusto e che Rosario Dawson sia una Gail passata dalla china alla carne e alle ossa della ragazza di Edward Norton ne La 25a Ora di Spike Lee. Incredibile. Stupendo. Supercalifragisexy! In passato Miller era stato coinvolto in qualità di sceneggiatore nei progetti Robocop 2 e 3, esperienze talmente negative che all’epoca lo portarono a dichiarare che non avrebbe mai più permesso a Hollywood di dare vita ad adattamenti dei suoi fumetti. L’imperativo di Rodriguez è stato fin dall’inizio rispettare lo spirito del graphic novel originale e tanto deve aver soddisfatto il maestro dello stile grezzo e violento se poi è tornato sui suoi passi al punto di co-dirigere la pellicola ed interpretare un piccolo ruolo (è il prete al servizio del cardinale Roark). Un taglio netto all’annosa questione dei tradimenti perpetrati dal cinema ai danni dei comics, con conseguente crescita esponenziale dell’entusiasmo dei fans: «Se ci mette le mani LUI in persona possiamo stare sicuri!» Guardo il film e mi annoio un po’. Visivamente ineccepibile, certo: qui c’è il fumetto (tutto, dall’inizio alla fine, scena per scena), ciò nonostante la staticità della regia indica chiaramente quanto il grande assente sia il cinema. Linguaggi simili ma talmente distanti che quasi mai riescono a fondersi in un linguaggio unico quando il mezzo è la macchina da presa. Sin City è un esperimento che affascina, strega gli occhi, eppure delude quando si scopre privo del tempo dell’action, plastico e fuori dal registro cinematografico. Un tradimento – uno solo, magari nella ricostruzione dei dialoghi – sarebbe bastato, ma si è preferito percorrere fino in fondo la strada della fedeltà, di una filologia sproporzionatamente piatta. Come Immortal (ad vitam) di Bilal: buone intenzioni, eccellenti intuizioni ma solo un vago retrogusto di celluloide.
(N.G.D’A.) |
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