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LE TRE SEPOLTURE |
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Tommy Lee Jones firma un western d’ambientazione contemporanea. Sì perché tra il Texas e il Messico esistono ancora mandriani, uomini col fucile, pascoli e terre desolate. Ci sono anche cameriere di mezza età che si fanno accarezzare il sedere mentre versano il caffè e sceriffi svogliati verso gli interessi della giustizia. C’è ancora la polvere che si alza sulle strade e uomini ruvidi segnati da una vita fatta di solitudine e staccionate. Ma, allo stesso tempo, esiste anche il presente: donne grasse che prendono il sole in compagnia dei loro chiwawa, tv spazzatura sul 15 pollici in cucina, centri commerciali come luna park e Sogni Americani ormai impotenti come gli incontri furtivi dello sbirro Belmont. Il film ha due meriti: una sceneggiatura solida e personale (premiata al festival di Cannes) ed una regia altrettanto matura, introspettiva ed intelligente, che narra attraverso lo sguardo ed è animata da un respiro che ricorda la sensibilità naturalistica di autori come Antonioni o Terrence Malick (recentemente al cinema con The New World), registi che hanno sempre costruito i propri personaggi fotografando l’epica misteriosa degli spazi in cui si muovono. Le tre sepolture è un viaggio di redenzione al contrario, dagli States al Messico, lungo l’itinerario che invece i messicani percorrono cercando di infiltrasi nell’America dell’opulenza alla ricerca di un lavoro di terza categoria. Tommy Lee Jones, anche protagonista del film, col volto scavato dalla sabbia di questi luoghi dove è realmente cresciuto, è una sorta di Virgilio eastwoodiano che guida tale fuga dall’occidente, alla scoperta dei valori e dell’umanità che gli yankee, seduti sulla loro montagna di telenovelas e benessere, sembrano aver perso. È l’estraniamento da un mondo privo di valori culturali e orfano di passioni, dove l’amore è istituzione e il sesso uno sfogo senza erotismo. Una società alla deriva incarnata dal bravissimo Barry Pepper (già protagonista ne La 25 Ora di Spike Lee), che con la costrizione della violenza deve ripercorre il sogno di felicità di un clandestino, il messicano Melquiades Estrada, al quale ha erroneamente tolto la vita. Un uomo che, se pur morto e ormai preda della voracità delle formiche, sembra valere più di tutti gli altri: per la sua lealtà, il suo altruismo, la sua purezza. Lo sceneggiatore del film, Guillermo Arriaga, adotta una struttura frammentata, marchio di fabbrica già messo a punto nella scrittura di Amores Perros e 21 Grammi (diretti entrambi da Alejandro Gonzalez Inarritu), riuscendo a rendere fisicamente la puzza di un mondo che va in malora, e che ha bisogno di entrare in putrefazione per rigenerarsi e guarire. Il regista ha anche lavorato bene sui personaggi, tratteggiandoli con dettagli veri ed interessanti, lontani dall’assomigliare a semplici topos ma capaci di diventare colori primari in una storia che rimane in bilico tra il dramma individuale e l’affresco corale. Alla fine di tutto, fuori dalla sala, torna in mente un film splendido, italiano, lontano per genere e ambientazione ma profondamente simile: Lamerica di Gianni Amelio. Pensando al suo splendore, si capisce il pizzico di poesia che il film tenta di raggiungere e che, solo in parte, riesce a catturare. Perché qualcosa, alla fine, sembra mancare o essere ancora acerbo. Ma quello che c’è basta per fare dell’esordio registico di questo vecchio attore hollywoodiano uno dei migliori film da lui interpretati. Antonello Schioppa |
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