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ASPETTANDO ABEL |
“Che altro c’è oltre al Bene e al Male se vuoi fare del cinema?” (Abel Ferrara)
“C’è caos in Ferrara, ma è un caos ordinato” (Christopher Walken)
È nella patria del nonno emigrato nel 1900 da Sarno in America e dell’amico Nino D’Angelo. Qui da più di un anno, con due o tre progetti in testa e un’agenda fitta di appuntamenti mondani, nomi, cose, animali, numeri di cellulare. Lo vedi a Trastevere, nel bel mezzo di un party, con un bicchiere in mano e l’aria di chi conosce da sempre il peso specifico dell’alba. La solita aria di Abel, pensi. Sfiorato da molti (ultra)corpi, inchiodato sul divano da qualche idea fissa. Go-Go tales, ad esempio, film ambientato in uno strip-club. E chissà che altro, dopo R Xmas (2001) con Drea de Matteo, Lillo Brancato e Ice-T. Abel vuole la Herzigova. Abel vuole Robert Carlyle. E vuole di nuovo sul set Vincent Gallo (nella parte di nostro signore Gesù, si mormora). Insieme a quelli di Cronenberg, Lynch e Carpenter, il suo è l’unico cinema che oggi valga davvero un’attesa. Abel Ferrara, o la visione disperata del mondo in cui viviamo. Il disincanto, la poesia trovata in un cassonetto della spazzatura. “Ad uno sguardo superficiale i film di Ferrara appaiono come dei contenitori assurdi, involucri che riflettono il vuoto” scriveva Federico Chiacchiari nell’introduzione al volume collettivo Abel Ferrara – la tragedia oltre il noir (Roma, Stefano Sorbini Editore, 1997). Dall’esordio in territorio hard di Nine lives of a wet pussy (1977, titoli alternativi: Nine lives o Nine lives of a wet pussycat ), firmato con lo pseudonimo di Jimmy Boy L., sono trascorsi ventisette anni, sedici lungometraggi, un pugno di corti (uno dei quali per il film a episodi Subway stories: tales from the underground del 1997), tre film per la tv (The Gladiator, del 1986 e, prima ancora due puntate della serie Miami Vice nella stagione 1984-85). Anche Crime story (1986), con Dennis Farina nei panni del tenente Mike Torello, era nato come pilota dell’omonima serie per il piccolo schermo prodotta da Michael Mann e ispirata alla vita di un vero poliziotto di Chicago. Tempi lontani, gli anni Ottanta. Come il lungo sodalizio con lo sceneggiatore Nicholas St. John, amico del South Bronx e cattolico integralista oggi eclissatosi pare definitivamente da tutto il cinema, non solo da quello di Ferrara. Come l’attenzione del colosso Warner Brothers (destata all’epoca da un insolitamente entusiasta William Friedkin) per L’Angelo della vendetta (1980), parabola nerissima, tra Polanski e Scorsese, della vittima di uno stupro che si trasforma in carnefice (la protagonista è Zoë Tamerlis/Lund, poi sceneggiatrice de Il Cattivo tenente). "Cercavamo una sensualità fredda e un tono violento. Roman Polanski (Repulsion) mi ha sempre influenzato. Thana, la protagonista, non è definita chiaramente. A volte è simpatica, a volte è fascista. La gente è rimasta scossa nel vedere un' innocente che diventa una furia assassina” (dal Catalogo Mystfest XII, 1991). New York è sporca, molto diversa dalle immagini patinate di Woody Allen. È lo spazio saldato allo sguardo poco rassicurante di una macchina da presa che non ammette astrazioni intellettuali, cartoline romantiche con il ponte di Brooklyn sullo sfondo. Anche Manhattan è “quasi medioevale”, come scrisse il critico dei Cahiers du Cinéma Nicolas Saada (n.435, settembre 1990) a proposito di King of New York. “(...) il giorno e la notte si confondono in esterni filmati come décors di studio: una volontà plastica che avvicina Ferrara a un Fuller o un Aldrich”. Forse perché (ipse dixit), Abel si sveglia la mattina incline alla commedia e arriva a sera reputando la commedia un’impresa difficile. Oppure perché, come ha risposto candidamente una volta a un Martin Scorsese crucciato dalla sorte del cinema come arte, per sua e nostra fortuna Abel Ferrara non sa neanche cosa sia un’opera d’arte. L’avesse saputo, non avremmo mai intuito i molti punti di contatto tra il suo lavoro sul set e quello di Pasolini, l’approccio selvaggio alla pratica cinematografica, l’anarchia sciaguratamente estranea a molti (Alberto Crespi, su L’Unità del 16/11/1993: “(...) pensiamo che Ferrara sia un regista curioso ma estremamente sopravvalutato, e che Occhi di serpente sveli una volta per tutte la natura superficiale, manierista e fondamentalmente balorda del suo cinema”). L’arte, il rischio dell’eccesso come negazione degli altri: Madonna tra Harvey Keitel e James Russo in Snake eyes (1993). Dissoluzione e paranoia dentro/fuori dal set filmato, intorno e dentro la diva/moglie metà carne, metà residuo di un sogno, nitrato d’argento (“animal nitrate”, cantavano i Suede) spruzzato/sovrimpresso alle Scene da un matrimonio di Bergman. Domande lancinanti come “Che significa: finché morte non ci separi?” che torneranno in The Funeral (1996) e The Blackout (1997) a ricordarci che per questo regista, l’arte comincia anzitutto dal coraggio di sviluppare un racconto scabroso di passioni folli, di pulsioni animali. The Blackout è l’amnesia ingannatrice, il nero di un io narrante che unisce cinematograficamente Matthew Modine ed Abel Ferrara e quest’ultimo all’Hitchcock di Vertigo. “Matty ha dei vuoti di memoria, e quando gli capita perde il controllo. Una volta uccide qualcuno, un'altra costringe una donna ad abortire. È Jekyll e Hyde, c'è un demone dentro di lui.” (Abel Ferrara, intervista a cura di Gavin Smith, Sight & Sound, 4 aprile 1997). Uomini, donne, città. New York è la discarica delle idee idiote, la pista ghiacciata di chi pattina sul vuoto, l’odore dei dollari che a Frank White/Christopher Walken, in King of New York servirebbero a sovvenzionare la ristrutturazione di un ospedale ad Harlem e che LT/Harvey Keitel ne Il Cattivo tenente perde nel gioco d’azzardo, ritrova grazie al prestito di un amico, sceglie di regalare (condannando a morte se stesso) ai due stupratori di una giovane suora. “Il dolore della morale è il motore del Ferrara touch. Ferrara diffida dell’«artisticità» dell’arte a favore dell’eticità del cinema.” (Silvio Danese, in Abel Ferrara – l’anarchico e il cattolico, Genova, Le Mani, 1998). Quel dolore ha reso The Addiction (1994) un trattato filosofico di celluloide, “tragedia morale in un contesto vampiresco” con la fotografia espressionista di Ken Kelsch e musiche di Cypress Hill, Vivaldi, Friedrich Nietzsche (Eine Sylvesternacht) aggiunte allo score originale di Joe Delia, quindi la migliore interpretazione in assoluto di Lili Taylor. Non abbiamo altro, al momento. Aspettiamo fiduciosi. Forse l’opera che cucirà idealmente insieme New Rose Hotel (1998) a The Driller killer (1979): William Gibson in cortocircuito, affrancato dal fardello cyberpunk e la parata di mostri che sniffano l’arte in un loft di merda passando il resto della nottata ad ascoltare le prove dei Roosters. Carne e dolore, poesia in declivio, preghiera a Dio sfiorata quando le cose degenerano, biascicata da un junkie nell’istante fatale: troppo tardi, tanto da essere erroneamente confusa con un’abrasiva bestemmia.
Nino G. D’Attis |
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