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OLD BOY |
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Attraverso una tragedia edipica cupa e violenta fino al parossismo, il regista coreano Chan Wook Park indaga sugli elementi contradditori che stanno alla base del concetto di vendetta, codice d’onore d’altri tempi così alienato dai meccanismi moderni da risultare disturbante. Dae suoh medita vendetta fin dal primo giorno della sua prigionia, nessuno troverà mai il tuo cadavere perché io lo divorerò pezzo dopo pezzo. Si allena fino al martirio sanguinolento, si scarnifica, si tatua gli anni che passano sulle mani e intanto invecchia, come il ritratto demoniaco nella sua cella, specchio della sua anima. Ma la vera vittima di questo insano proposito autodistruttivo è il suo carceriere Woo Jin lee. Per 15 anni si nutre e si alimenta nel suo capolavoro architettonico di rivalsa e quando questa cessa di esistere non può far altro che uccidersi. I quindici anni di prigionia di Dae suoh sono soprattutto la modernizzazione irresponsabile della Sud Corea che da paese del terzo mondo diviene una copia mostruosa di un paese occidentale. Il protagonista vive questa trasformazione attraverso il filtro distonico della televisione che deformerà, assieme al forzato isolamento, le sue coordinate sul mondo esterno mantenendo tuttavia inalterati i valori e le origini culturali da cui proviene. Tutta la fase investigativa si muove tra cellulari, internet, videocamere, microspie mentre alla base vi è il barbaro e atavico desiderio di vendicarsi. L’amore di Mido e per Mido è inizialmente ristoro poi strumento infine condanna. Old boy, stanco, pazzo, strambo, ribelle non può più esistere in questa realtà a lui estranea anche quando reclama da povera bestia briciole d’umanità. Mangiare un polipo vivo, camminare imbrattato di sangue in mezzo ai passanti, tagliarsi la lingua sono gesti disperati e grotteschi, ultimi tentativi di permanenza e accettazione. Non è un caso che la frase che ricorre spesso nel film sia sorridi e il mondo sorriderà a te, piangi e piangerai da solo . Old boy ci proverà fino alla fine, avvolto dalla purezza del bianco, dalla neve, dall’ipnosi tramutando il suo dolore in un ghigno beffardo e triste. L’interpretazione di Min Sik Choi è disumana, totale, spiazzante. Regia, montaggio, fotografia, colonna sonora sono praticamente perfetti ma proprio per questo risaltano l’evidente blockbusterizzazione del cinema contemporaneo che ormai non lascia nulla al caso assestandosi su standard di preoccupante professionalità. Ci stiamo riuscendo anche noi italiani, basti pensare ad Occhi di Cristallo di Puglielli che non ha nulla da invidiare dal punto di vista formale a questo film. Viene da pensare che il cinema rischi di diventare una bellissima donna di cera ed è forse per questo che disapprovo con vigore il confronto fatto da alcuni delinquenti della carta stampata tra Chan Wook Park e il sommo maestro Takeshi Kitano. Gemme come Sonatine, Hana bi, L’estate di Kikujiro provengono sinceramente da un altro pianeta. Jo Laudato |
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