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LA TERRA DEI MORTI VIVENTI |
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Annunciato, invocato, urlato in tutte le recenti occasioni mancate, in quei film che avrebbero voluto essere ricordati come romeriani ma non beneficiavano neppure del guizzo necessario per l’ammissione nella Hall of Fame delle buone scopiazzature. Il sessantacinquenne George Andrew Romero in panchina, mentre il box office registrava i successi dei due Resident Evil e del (quasi) remake videoclipparo de L’alba dei morti viventi firmato da Zack Snyder. Un gigante incatenato allo script di Dead Reckoning – Twilight of the dead, povero George. Costretto a tagliare, rivedere, ridimensionare un progetto che in origine (nel 1985) era stato addirittura parte integrante di Day of the dead: la polpa accantonata per mancanza di fondi. Aspettavamo solo il suo ritorno dietro la macchina da presa (non dopo vent’anni, come ha ragliato qualche somaro della carta stampata ignorando non solo Bruiser del 2000 ma anche La Metà oscura, del 1993, poi l’episodio diretto per Due occhi diabolici nel 1990 e Monkey Shines nel 1988). Confidavamo (che ironia!) nel pragmatismo dei produttori: i morti che camminano e sbranano hanno ripreso a far cassetta, quindi ora o mai più. Estate 2005: Land of the dead è una realtà. Il Gangs of New York dell’horror, il film che rende giustizia nel nuovo millennio a un’idea del cinema anni ’70 dimostrando come si possano spendere bene 18 milioni di dollari (cifra con la quale altri registi meno fantasiosi accetterebbero di girare al massimo il filmino di una prima comunione). A Toronto, Canada, con la fotografia di Miroslaw Baszak (già nella seconda unità di Snyder) e Howard Berger (Vampires; Kill Bill) al makeup. Un capolavoro che non sfigura all’interno di una saga ormai leggendaria. Una lezione di personalità che si rivela tanto più potente quanto più capace di lasciare il segno all’interno di scenografie povere, di pochi ambienti sfruttati al massimo. Opera suggestiva, arrabbiata, commovente che contiene per forza e stile non solo Romero ma anche Carpenter, l’altro grande assente copiato e clonato ad oltranza, poi il De Palma di Mission to Mars quando gioca a mandare in orbita tutti gli artifici della macchina Cinema. Pellicola che riflette senza mezzi termini (e meglio dei documentari con la griffe di Michael Moore, garantito!) sull’America di questi anni mettendo in campo paure e paranoie di un sistema politico e sociale saltato in aria ben prima dell’11 settembre. Puoi imbambolare gli zombi sparando meravigliosi fuochi d’artificio nel cielo, ma non puoi sperare che l’inganno duri per sempre perché gli zombi stanno cominciando a (ri)prendere coscienza e hanno intenzione di organizzarsi, comunicare, muoversi verso le roccaforti dei ricchi/furbi/potenti come il miliardario Kaufman (modellato in parti eguali su Donald Trump e sull’attuale presidente americano, interpretato dall’ex hippie supertossico oggi – si dice - reazionario Dennis Hopper). Il futuro più cupo è qui (narrativamente non molto dopo gli eventi che hanno portato al proliferare di morti antropofagi), in questa terra di senzatetto, senza diritti che già nel 1968 – era Vietnam - l’autore chiamava “zombi operai”. La prima sequenza è per loro e sembra quasi che la macchina da presa carezzi amorevolmente gli abiti laceri, i corpi decomposti di un’orda ora capeggiata dal nero Big Daddy (Eugene Clark), degno discendente di quel Bub che in Day of the dead ascoltava musica e riusciva (sia pur maldestramente) a farsi la barba. In vita, Big Daddy era un benzinaio grande grosso e magari mite. Riempiva i serbatoi delle macchine di gente come Kaufman e forse coltivava il sogno di una casa tranquilla proprio come Cholo (John Leguizamo), il mercenario che diventa terrorista quando il potere decide di non aver più bisogno dei suoi lavori sporchi. Diventato zombi, Big Daddy non si limita a mordere, decide addirittura, novello Zapata, di fare la rivoluzione. Ora, se tutto è cambiato, se le cose sono definitivamente precipitate nel baratro, l’umanità esposta al caos si divide però come sempre in disperati e bella gente che (si fotta la catastrofe) vivacchia nel grattacielo Fiddler’s Green sorseggiando champagne. Ci sono eroi come Riley (Simon Baker) ed ex puttane di regime della pasta di Slack (Asia Argento) buttati nella mischia (Slack viene addirittura utilizzata come esca in uno spettacolo di combattimento tra zombi), mandati a morire per difendere i sopravvissuti dal prossimo attacco terroristico. Modelli che sembrano arrivare da un qualsiasi action movie anni ‘80 eppure, sotto lo sguardo di Romero diventano altro: sparano, fanno saltare teste, se la cavano nei momenti peggiori ma sono più vicini all’ex marine Snake Plissken a spasso nella Grande Mela marcita che non agli Stallone e Schwarzenegger dell’era Reagan. Plissken, già. Abbiamo amato anche lui quanto gli zombi nel grande magazzino e Stephen, Peter, Roger e Francine asserragliati armi in pugno, uniti fino alla morte. Era il 1978, il contagio si stava diffondendo: tutti zombizzati, tutti romerizzati e già in attesa di questo comeback all’insegna dell’avventura, dell’impegno e (perché no?) di una forte (auto)ironia. Land of the dead è un miracolo che ci restituisce un’idea di cinema che credevamo annientata dal prodotto medio preincartato: esce in Italia negli stessi giorni di Boogeyman e manda tanti cari, sardonici saluti al signor Sam Raimi, produttore della succitata ciofeca.
(N.G.D’A.) |
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