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SAW - L'ENIGMISTA |
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C’è una landa desertica in cui l’immaginazione ed il sudore sopperiscono alla latitanza dei mezzi. Una landa in cui la visionarietà dell’artista procede a braccetto con l’inventiva dell’artigiano. Un posto dove i colpi d’occhio e di martello creano quell’affascinante dimensione che si genera all’interno di uno spazio fisicamente delimitato, ma mentalmente infinito. Quel posto viene comunemente chiamato cinema di serie B, o low-budget che dir si voglia. Al contrario delle apparenze però, la pochezza di mezzi non è una gabbia limitante ma l’esatto contrario. È il presupposto che avvicina il cinema ad altre arti figurative, data una reflex, hai qualcosa da fotografare, una tela ed un pennello, qualcosa da dipingere, una macchina da presa, qualche uomo di buona volontà ed il dado è tratto, si è liberi dai soldi, dai capricci di una star e dalle pressioni di un imprenditore. Saw – l’enigmista è costato circa un milione di dollari e per tale motivo è definibile una produzione minore. Il regista (James Wan) è alla sua opera prima. Il genere (thriller/horror) è tipico delle produzioni di seconda fascia. Gli ingredienti sono giusti, eppure, il piatto finale ha un retrogusto vagamente acidulo. Vero è che James Wan procede con mano sicura negli spazi stretti, e soprattutto, tratta con sfrontatezza la dimensione gore-splatter che, peraltro, è sapientemente giustificata dalle psicologie dei personaggi. Ed altrettanto vero è che, a discapito di una sceneggiatura mal assortita che tralascia inspiegabilmente la sfera delle indagini e tratteggia banalmente la figura del detective, il finale risulta essere sorprendente senza apparire gratuito. In pratica, un discreto film di genere che tenta una pretenziosa sintesi tra le inquietanti atmosfere di Seven e il claustrofobico gioco ad incastro di Cube. Ma tutto ciò non attenua l’acidula sensazione che qualcosa non quadri. Gli autori di Saw hanno il merito di aver creato un’opera che non sfigura al cospetto di altri thriller costati almeno dieci volte tanto, ma hanno il demerito di aver fatto del raggiungimento di tale obbiettivo l’unica ragione d’essere. In questo caso, la qualità del film passa in secondo piano e la visione genera un inquietante sospetto. Il sospetto che l’ombra lunga dell’appiattimento artistico si sia esteso anche a quelle produzioni che storicamente garantivano una maggiore libertà creativa. Se si è liberi di agire, allora si è liberi di creare altri mondi ed altre immagini. Nelle produzioni minori si deve poter procedere su strade che sviino il già visto. Se non è così, allora un grido d’allarme si rende necessario. Se non è così, allora i casi sono due, o i registi attuano un’imbarazzante auto-censura degna del più comune degli arrivisti, o le major hanno mutato il loro atteggiamento verso quelle produzioni, che in passato garantivano sperimentazioni alla ricerca di nuovi mercati, in qualcosa che presentandosi sotto una veste da straccioni, in realtà, si allinea su un mercato e degli stilemi già esistenti. In entrambi i casi, l’acidità è fonte di un mal di stomaco che presto o tardi farà vomitare. E se è così, non si può di certo biasimare chi la mente riporta alla RKO, una major certo, ma di quelle che, seppur venialmente per risparmiare, dava modo ad un manager d’origine russa come Val Lewton ed al regista Jacques Tourneur, di evocare altri mondi ed altre immagini con gioielli di serie B quali: Il bacio della pantera (Cat people, 1942), Ho camminato con uno zombie (I walked with a zombie, 1942), L’uomo leopardo (The Leopard man, 1943). Lunga vita al cinema low-budget, quello vero naturalmente! Davide Catallo |
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