…poi
ci sono quei film che, vuoi o non vuoi, aspetti da quando leggi su Il
Venerdì che stanno approntandone la sceneggiatura. Quei film che parlano
di cose che vorresti sentir dire e vedere da anni, che analizzano e
scandagliano mondi e storie da troppo tempo sommersi ed offuscati. Ed allora
capita che, appassionato come sei di radio, di Bologna, soprattutto quella
degli anni ’70 e di Wu Ming, ti esca un film che parla di
Radio Alice. Cazzo, RadioAlice, da leggere
tutto d’un fiato. La radio di Bifo, di Andrea
Pazienza, della contestazione e del movimento del ’77, sìssì proprio quella.
La sceneggiatura di Guido Chiesa e di Wu Ming, Valerio Mastandrea che fa la
guardia laida e viscida, la Pandolfi avvocato
del movimento, attori esordienti nei panni dei barbuti e rivoluzionari
speaker ed agitatori. Insomma, non vedevamo l’ora che uscisse, ‘sto film, ed
aspettavamo che ci desse una luce, che ci portasse fuori dal minimalismo del
cinema italiano, che ci dicesse che i trentenni hanno ancora una speranza, o
che almeno non ci parlasse più dei trentenni che non ne possono avere più di
speranze, che ci facesse vedere una strada nuova del cinema italiano, e che
affrontasse da sinistra un argomento ed una storia di sinistra. Queste erano
le aspettative che ci animavano prima che le luci si spegnessero ed intorno
a noi sparisse anche l’ultimo bibitaro con relative “bomboniere” e cocacole.
Ed allora capita, a volte, che, con tutte queste aspettative, non sempre il
film riesca ad essere all’altezza di quello che gli chiedevamo. Per carità,
il prodotto filmico è perfetto ed alcune scene sono geniali, ma non abbiamo
percepito il guizzo, il salto di qualità, quello che ti fa dire “è un
filmone, appena esce in dvd me lo compro!”. Eccezionale l’idea iniziale di
partire come nei film muti, splendida la prova dei due ragazzi esordienti,
Ramenghi e Luisi,
carina anche l’idea di mettere in relazione la storia dei ragazzi di
periferia con quella della radio. Ottima la regia, da film non italiano,
bella anche l’idea di far
fare
gli AREA agli Afterhours,
ben fatte le scene degli scontri e la ricostruzione del clima dell’epoca,
come abbiamo apprezzato molto l’aver fatto aleggiare la figura di Pazienza.
Ci è piaciuta anche la caratterizzazione del carabiniere calabrese, sulla
quale forse avremmo insistito un po’ di più, e la riproposizione
coraggiosissima di discorsi dell’epoca. Insomma fin qui tutto bene, ma c’è
un però, come tutte le volte che si inizia con l’elencare i pregi di una
cosa. Ci saremmo aspettati una retorica sulla rivoluzione e sul movimento di
quegli anni un po’ diversa da quella di Fragole e
sangue e di Porci con le ali: a nostro avviso dal film si
evince che la rivoluzione la fanno i borghesifiglidipapàcolculocoperto e che
siano sempre i figli degli operai a pagare le conseguenze sociali di una
rivolta o pseudo tale. Forse abbiamo capito male questo film, ma ci
aspettavamo un qualcosina di più. Anche se velatamente, il film rischia di
fare la solita retorica sul movimento cui sopra accennavamo: una retorica
destrorsa, borghese e revisionista per cui chiunque decida di voler
migliorare il mondo, lo faccia perché con le spalle coperte. Certo è che,
effettivamente, se pensiamo ai Liguori, ai
Ferrara e ai Paolo Mieli, un vago ed indistinto sospetto potrebbe insinuarci
in noi, ma da un film sulla Bologna anni ’70 non ci aspettavamo di doverci
ripensare. Non che non bisognasse accennare all’anima borghese del
movimento, ma non pensavamo che anche in questo film la stessa venisse
criticata come farebbe un Giano Accame o un
Feltri qualsiasi. Tornando agli aspetti positivi, ottima la colonna sonora,
in particolare la scelta di chiudere con Mio fratello è figlio unico,
la canzone più sottovalutata del “riscoperto” Rino
Gaetano, e soprattutto l’aver centrato l’interesse su un mondo e su
un periodo che, ahinoi crediamo non possa più tornare: viva il flusso
creativo e hasta sempre Radio Alice!
Simone Pollano |