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NATURAL CITY |
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Primo film coreano con una post-produzione interamente digitale, una lavorazione che è durata diversi anni, la regia di Min Byung-Chun (gia autore di Phantom: The submarine, film del 1999), e il tentativo coraggioso di confrontarsi palesemente con uno dei capolavori della fantascienza cinematografica: Blade Runner (sulla locandina si legge: finisce l’era di Blade Runner ed inizia il mito di Natural City). 2080 - il mondo è reduce da una guerra nucleare, e i pochi umani rimasti costruiscono cyborg (con DNA umano) per avere una forza lavoro al loro servizio, ma capita che un uomo, a volte, confonda i confini tra l’umano e l’artificiale, e che dei cyborg, grazie alla mente folle di qualche scienziato da strapazzo, desiderino “umanamente” vivere più a lungo di quanto indicato dal loro programmatore. Dallo scontro di questi due desideri, quello contro natura (esercitato dall’uomo), e quello contro l’equilibrio tecnologico (esercitato dai cyborg tramite la follia di un uomo), si genera la tensione che dovrebbe sorreggere il racconto. Fin qui nulla di originale, meglio allora rivolgere l’attenzione verso l’aspetto più interessante che il regista sembra mettere in gioco: il concetto filosofico di autodistruzione. L’autodistruzione esistenziale relativa al poliziotto R (Ji-Tae Yu), che per via di un cronicizzato mal di vivere finisce per innamorarsi di una ballerina-cyborg non potendone, di conseguenza, accertarne “l’artificiale” fine, e, appunto, l’autodistruzione tecnologica connaturata in ogni cyborg, che ad una certa ora e in un determinato giorno, puff! Fine, non si esiste più. È forse l’anticamera dell’autodistruzione dell’intera umanità? La risposta non ce la darà Min Byung-Chun che anche su questa dimensione filosofica rimane sull’ovvio. La riflessione su quanto la dialettica tra uomo e tecnologia avanzata (androidi, robot, mondi virtuali...) potrà, in futuro, mutare gli equilibri precari dei sentimenti umani, è quanto di più affascinante la letteratura fantascientifica abbia prodotto nel XXI secolo. Oggi si versano lacrime per la morte del proprio animale domestico, ma chi può escludere che fra un centinaio d’anni non si versi qualche piccola lacrimuccia per il cortocircuito capitato alla nostra tata robotizzata? Chi può escluderlo totalmente? Natural City, anche su questo aspetto, non aggiunge nulla agli squarci teorici che in tal senso, ad esempio, la penna dickiana ha aperto qualche decennio or sono, e l’occhio di Min Byung-Chun non riesce ad evocare universi visivi degni di uno sguardo appassionato, limitandosi ad aggiornare quelli già intravisti in altre opere, e, soprattutto, nell’unico bel film tratto dalla letteratura di Philip. K. Dick, il succitato Blade Runner. Il film dunque, pur mantenendosi per certi aspetti interessante (la descrizione delle solitudini ed una certa poeticità), non va oltre la messa in ordine di cose già viste e tradisce, non facendone il principale motore del racconto, l’unico aspetto accattivante che ha in seno: il concetto bivalente (uomo/tecnologia) di autodistruzione. A quanto pare, l’uomo di oggi non è ancora pronto per esplorare nuove galassie, meglio allora restare con i piedi sulla luna (sulla locandina andrebbe scritto: grazie anche a Natural City continua il mito di Blade Runner). Davide Catallo |
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