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A. I. - ARTIFICIAL INTELLIGENCE

 Nel messaggio video con cui Spielberg chiede scusa per l'assenza dal Lido e che precede la proiezione del suo nuovo film "A. I." scopriamo che Kubrick l'aveva in mente da dieci anni, il seguito ideale di "2001" che sarebbe proseguito nell'esplorazione del rapporto tra uomo e macchina: e se Hal 9000 non era certo una presenza rassicurante, con le sue manie e paranoie tutte umane, David il bambino robot protagonista della storia è viceversa fin troppo amorevole con i genitori adottivi, tanto da costringerli ad abbandonarlo quando il rapporto col fratellino in carne e ossa si fa pieno di gelosie e competizioni. In compagnia del supertoy Teddy, un orsacchiotto di peluche che parla, cammina e consiglia, e dello gigolò meccanico Joe, programmato dagli umani per dare più piacere di quanto un umano, umanamente possa fare, David parte così alla disperata ricerca di una fata che possa trasformarlo in bambino vero; se con Pinocchio ha funzionato non c'è motivo per cui con funzioni anche con lui.
Morto un Kubrick non se fa un altro, e se si potesse fare non sarebbe certo Spielberg, che come al solito è troppo impegnato a propagandare le sue moraluccie ovvie e buoniste per riuscire a fare quello che invece Kubrick faceva: capolavori. Intendiamoci, "Artificial intelligence" è un bellissimo film per bambini, delicato e commovente a tratti, ben diretto, ben recitato, a volte divertente e non noioso nonostante la presuntuosa, eccessiva lunghezza. Ma non rappresenta nessuna novità rispetto alle pellicole che vediamo tutti gli anni in periodo natalizio, anzi ne riprende tutti quegli orribili tratti essenziali che devono fare di ogni film Dreamworks un prodotto commercialmente vincente, sia per adulti che per bambini, politically correct, luccicante, colorato, tecnologicamente all'avanguardia e moralmente probo e onesto. Ma è possibile che con un soggetto made in Kubrick -ovvero: eccezionale, come tutto ciò che Kubrick ha partorito- non si riesca proprio a fare di meglio? "A. I." parte bene, proponendo un doppio tema di geniale interesse a attualità: può una macchina amare un essere umano, e soprattutto essere ricambiata? Se la risposta alla prima domanda è sì (David è programmato per amare la madre e quindi lo fa), la risposta alla seconda pare essere ugualmente sì: nel lacrimevole finale la mammina ammette di avere sempre amato il bimbetto meccanico, si chiude il sipario e tutti sono felici e contenti. Ma allora perchè lo ha abbandonato? Non basta l'happy end a dare un senso a tutto quello che c'è stato prima, per fare un buon film -e dispiace dovere ancora mettere l'accento su questioni che per un cineasta navigato con Spielberg dovrebbero essere ormai scontate- servono dei personaggi con un cervello, di carne o di ferro che sia. Serve coesione narrativa e non c'è: troppi buchi, salti e spiegazioni non date (in un mondo supersorvegliato i tre eroi riescono a rubare un'elicottero della polizia e a non essere rintracciati, per esempio, ma se ne potrebbero elencare molti altri).  Serve originalità, e non c'è nemmeno quella: Carlo Collodi questa storia l'ha già scritta tanti anni fa, si chiamava Pinocchio e al cinema l'hanno già portata (non basta ammettere apertamente la citazione per fare sì che non sia più solo e soltanto citazione). Serve un serio approfondimento delle tematiche in questione, che non si accontenti della spiegazione più semplice ma vada a scavare nei percorsi psicologici dei personaggi per dare un filo alle loro azioni: a maggior ragione quando la carne al fuoco è tanta e tale, quando le problematiche morali sono attuali e controverse, quando ci sarebbe tanto da dire. "2001", nella sua infinita perfezione, è lontano mille miglia: "A. I." non è niente di più che una favola umanocentrica (alla fine le macchine confermano a David che l'uomo è l'essere perfetto e supremo, e conoscendo Spielberg poco ci mancava che dicesse che l'essere perfetto e supremo è lo statunitense) e un po' svogliata nella realizzazione, senza vero interesse per il dramma morale dei protagonisti, per la loro crescita e maturazione. Voto, nonostante tutto, un 7 pieno: ma non ci si illuda di trovare qualche traccia di Kubrick, in questa ennesima operazione commerciale per famiglie di un regista che dovrebbe piantarla di dare lezioni di filosofia spicciola e rimettersi a fare ciò per cui è portato: Indiana Jones.

                                                                 (V.S)




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