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Brucio nel vento di Silvio Soldini

 

"Se come regista smettessi di bruciare, di cercare altre strade, sarebbe la fine".(1) Dopo il successo di Pani e Tulipani, Silvio Soldini, giunto al quinto lungometraggio, liberamente tratto dal romanzo Ieri di Agota Kristof, non smette di bruciare, di raccontare altri mondi solo per l’urgenza di farlo, per l’esigenza di esprimere la propria identità, lontano dai trucchi e dalle bugie accattivanti di tanto cinema. È proprio ciò che ricerca Tobias, l’operaio-scrittore protagonista assoluto di questo melodramma fiammeggiante raffreddato nella neve svizzera, descritto con uno sguardo allo stesso tempo severo e tenero e con un rigore quasi bressoniano. Emerge un lacerante sentimento di estraneità: nel regista dal cinema di grande consenso popolare, nella scrittrice ungherese dalla letteratura di consumo e nel personaggio di Tobias da una vita "normale" che non gli appartiene. Una vita piena di solitudine e di dolore, fatta di gesti vuoti ripetuti ciclicamente come "la corsa idiota" (2) alla fermata del bus, il viaggio fino alla fabbrica di orologi, il lavoro, "lo stesso buco, nello stesso pezzo da dieci anni". (3) "Nato in un villaggio senza nome, in un paese senza importanza" (4) e scappato da esso e da un passato terrificante che incombe sul presente, Tobias si ritrova straniero, ma più di fronte a se stesso che agli altri. La sua anima inquieta, divisa in due, come spesso accade nei film di Soldini, insegue attraverso la scrittura un’altra vita solo sognata ed un’ossessiva storia d’amore che Marco Lodoli ha definito "dura come un sasso", vero perno del film-libro. Un amore ideale atteso tutta un’esistenza, Line, la compagna di banco dei primi anni di scuola e figlia dello stesso padre, l’unica persona capace di dare un senso alla sua vita e far cambiare il suo presente. "Le mie giornate alla fabbrica diventano giornate di gioia, i miei risvegli al mattino una felicità, il bus un viaggio intorno alla Terra, la piazza principale il centro dell’universo". (5) Agota Kristof, però, in questa favola nera, affascinante e perversa, non concede al protagonista la possibilità di sottrarsi ad un destino crudele e sceglie a differenza del regista il più nichilista dei finali possibili, non una tragedia grandguignolesca ma una condanna a non poter più sognare, una forzosa accettazione dell’esistente. Questa è l’unica grande libertà che Soldini, coadiuvato dalla fidata Doriana Leondeff, si prende nei confronti del romanzo, ma ne ribalta completamente il senso: letteralmente trasforma solo in un incubo il cupo finale del libro. È per questo che il regista ha deciso di non adottare il titolo della Kristof. Ieri era proiettato al passato, non al futuro. Agli occhi del protagonista la triste infanzia profuma comunque di nostalgia:

"Ieri tutto era più bello

la musica tra gli alberi

il vento nei miei capelli

e nelle tue mani tese

il sole" (6)

Una storia di questo tipo poteva scivolare tranquillamente nel romanzo d’appendice, ma la scrittrice, attraverso un linguaggio duro ed essenziale, asciuga e raffredda la trama giocando di sottrazione e non risparmiando squarci di caustica ironia. Giorgio Manganelli definisce lo stile della Kristof, che si nutre del lirismo della poesia e della semplicità della lingua parlata, "una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l’andatura di una marionetta omicida". L’autrice nasconde sotto la densità e l’intensità della scrittura un amore smodato per i suoi personaggi che lascia intravedere impliciti elementi di autobiografismo; come il protagonista del romanzo anche lei è emigrata nel ’56 dall’Ungheria alla Svizzera. Attraverso il cinemascope l’abituale direttore della fotografia Luca Bigazzi rende significanti le luci dell’est così come le montagne svizzere. Il paesaggio è un riflesso dell’anima ed il regista lo esprime mediante una struttura dialettica attraverso la quale contrappone le diverse stagioni della vita: l’estate spagnola, nel finale, prende il posto dell’inverno svizzero. Le opposizioni luna/sole, bosco/mare, vento-pioggia/acqua trasparente, cielo grigio/cielo azzurro sono espressive tanto quanto gli intensissimi volti degli attori cechi Ivan Franek e Barbara Lukesova, doppiati da Fabrizio Gifuni e Licia Maglietta. La coraggiosa scelta del casting è un’ulteriore conferma del personalissimo cinema di Soldini, aspro e "silenzioso" ma sincero e prezioso, che arde e vibra come una fiamma nel gelo.

Intervista a Silvio Soldini, "Film Tv" Anno 10 N 3

(2-6) Agota Kristof, 1997, Ieri, Einaudi (Ed. or. 1995)

Giorgio Giliberti