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CATERINA VA IN CITTÀ |
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Caro Paolo Virzì, stavolta ci hai deluso. Te lo diciamo così. Secco, asciutto, telegrafico, essenziale. A noi che ci eravamo interessati della situazione degli operai di Piombino. A noi che avevamo sentito l’"ovosodo" in gola che non andava né su né giù. A noi che avevamo odiato la viltà di Fantastichini e Natoli. A noi che ci eravamo approcciati alla carne di struzzo. A noi che Tanino era un amico. Sì, proprio a noi che ti avevamo seguito, apprezzato ed amato, stavolta non sei piaciuto. Perché hai voluto raccontare Roma, Paolo, e scusaci il tu? Perché una città che non è la tua? Avevi smentito il vecchio adagio "nemo propheta in patria", raccontandoci la tua terra in maniera mirabile. Eri il Ken Loach nostrano. Ridevamo e piangevamo. Raccontavi storie in apparenza leggere, in verità pesanti, nonostante tutto divertenti, ed uscivamo dal cinema pensierosi, in un misto tra sorriso ed amarezza. Eri completo e sottovalutato. Perché hai tentato il salto? E soprattutto che salto? Amendola, Buy, Castellitto, Bucci. E poi ancora cammei di Michele Placido, Costanzo, la Melandri, Benigni. Un cast di prima. Con uno scopo difficilissimo: raccontare Roma ai tempi del Polo. Non è un film politico, ok. Ma allora perché la retorica finale da "rossi e neri sono tutti uguali" di morettiana memoria? Forse non abbiamo capito il tuo film, Paolo, ma certe cose ci hanno sinceramente sconcertato. Come è possibile che in terza media dei ragazzini parlino di politica in classe, con relative suddivisioni ideologiche? No, spiegacelo per favore. E soprattutto perché ce lo dici solo alla fine del film che stiamo parlando di scuola media? È assurdo, converrai con me! Ma quando mai in terza media si è mai parlato di politica o si è andati alle manifestazioni? A Roma questo non succede, Paolo. Come non succede che a quell’età ci siano feste quasi notturne. I vestiti, i cellulari, i motorini, e le esclusioni dal gruppo per uno di questi status symbol sbagliati. Questa è l’adolescenza e ne hai accennato. Certe parti sono anche molto divertenti. E certe scene strepitose, come quella del matrimonio "fascista" a Latina. Castellitto è bravo che fa rabbrividire tanto si immedesima nel suo personaggio viscido e frustrato. Vedi Amendola e ti incazzi perché, durasse il film un’ora in più, vorresti rivalutare anche Gasparri. La Buy è eccezionale, anche se sfruttata poco e male. La partenza ed il ritorno a Montalto di Castro della famiglia Iacovoni è reso benissimo ( fra l’altro è esilarante il personaggio del cuginetto di Caterina!). Ma i ragazzi di tredici anni, almeno a Roma, è difficile che sappiano che se una loro compagna di scuola viene da Montalto, arriva dalla cittadina famosa per la centrale nucleare e si mettano a discutere sul tema. Troppa faciloneria. Luoghi comuni. Poche sfumature. Tutto questo non ha mai fatto parte del tuo cinema. Ci hai raccontato di operai traditi, uomini –tv squallidi e viscidi, figli di papà, analfabeti, falliti. E lo hai sempre fatto, ribadiamo, con ironia, ma soprattutto scavando dentro i tuoi personaggi. Approfondendoli. Finivamo di vedere i tuoi film e, seppur con una punta di acidità, ci sentivamo più completi. Stavolta no. E l’abbiamo capito dalla seconda scena. La prima in città. Banale e macchiettistica. Quasi da Bagaglino. Roma per certi versi fa schifo. Ma non al punto che qualunque ambiente "altolocato", da quello intellettuale e borghese di sinistra a quello di un politico ex-fascista, sia uguale all’altro. Senza distinzione. Non c’è speranza per il selfmademan di provincia. Resterà sempre un perdente ed un escluso. Noi non ci crediamo, Paolo. Non crediamo a questo finale, stavolta. E secondo noi non credi neanche tu. Altrimenti, caro Paolo, te lo meriteresti Alberto Sordi….. Con stima ed affetto per il tempo che fu e che speriamo sarà.
Simone Pollano |
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