Il re tormentato cammina
da solo per la seconda volta. Un po’ più fiducioso di se stesso, per la
verità, finita la vita spericolata del rocker che flirtava con la morte
e sembrava condannato a non risalire mai più la china.
Il re tormentato ha
fatto pace con molti dei suoi fantasmi, primo tra tutti il tempo: scendi
a patti con i segni che ti lascia sulla pelle, ti metti d’impegno per
ricucire gli affetti recuperando tutto ciò che le mille luci della fama
rischiavano di portarti via per sempre. Forse è vero che invecchiando
diventi un po’ più saggio: Hourglass è un disco che parla di un
uomo e del tempo che scorre, tutto il tempo che ci vuole per trasformare
un’adolescenza prolungata (di devastazione in devastazione) in maturità,
la follia autodistruttiva in qualcosa che somigli a una forma di
equilibrio piuttosto che a un’allucinazione continua.
“I don’t
believe in miracles / And they happen every day / I don’t believe in
Jesus / But I’m praying anyway”, dicono i versi di Miracles.
E, tra le
prime dichiarazioni rilasciate alla stampa, il cantante ammette: "Il
tempo sta stringendo per me. Ma non voglio starmene seduto a pensarci
ogni minuto. Voglio essere lì fuori a fare cose creative".
Un’altra buona notizia
che corre di bocca in bocca nel reame è che Dave Gahan, in libera uscita
dai
Depeche Mode dopo il lungo tour mondiale per promuovere Playing
the angel, ha affinato il suo songwriting rispetto ai deboli esiti
compositivi esibiti sul precedente Paper monsters (2003).
L’evoluzione, del resto, si era già palesata con Suffer well,
I Want it all e Nothing's impossible, i tre gioielli regalati
proprio all’ultimo lavoro del gruppo, una volta cessato l’estenuante
braccio di ferro con l’amico Martin Gore intorno alla spinosa questione
“chi scrive le canzoni” .
Prodotto in team con
Christian Eigner ed
Andrew Phillpott (membri aggiunti alla line-up dei
Depeche Mode durante i concerti) e registrato nel piccolo studio
personale di Gahan a New York (i rumori ambientali che si ascoltano in
Endless arrivano dalla strada sulla quale si affacciano le
finestre degli 11th Floor Studios), Hourglass è stilisticamente
più vicino al pop elettronico adulto esplorato dalla band dopo Ultra.
Pure, tra le pieghe sonore di Kingdom, canzone scelta come
singolo apripista, strisciano cupezze che non avrebbero sfigurato nel
canzoniere del gruppo di Basildon periodo 1997. Il testo parte con una
domanda, seguita da una bruciante constatazione: “Can you feel me
coming? / Open the door, it’s only me / I have that desperate feeling /
In trouble is where I’m going to be” e, ascoltando bene, il personaggio
che sta parlando sembra lo stesso protagonista di Barrel of a gun
dieci anni dopo, quel sovrano del nulla nascosto sotto una coltre di
mascara e lustrini, costantemente minacciato dalle conseguenze delle sue
stesse azioni. Canzone d’amore, Kingdom, ma anche di meditazioni
esistenziali ben sintetizzate dalla frase “Show me how this life should
be”. Peccato che il relativo video diretto dal canadese Jaron Albertin
(in precedenza al servizio dei Maximo Park e della Adidas) perda per
strada le coordinate sconfinando nel già visto.
L’attacco di
Saw
something mutua forme tipiche della ambient alla Howie B che
si
intrecciano ad una bella linea melodica arricchita da archi nella
sezione centrale ed esaltata in coda da una chitarra elettrica mai sopra
le righe. Brusca sterzata in territori Daft Punk con Deeper,
ballabile dall’anima funk (in una selva di distorsioni) elegantemente
robotico e cattivo, talmente semplice da rasentare il colpo di genio.
Un’altra sorpresa inattesa arriva nel vestito sonoro di 21 Days:
Dave ha ascoltato con molta attenzione SubHuman, l’ultimo disco
targato
Recoil dell’ex compagno di squadra
Alan Wilder, il riferimento è
quello mentre canta di costruire una torre di paura lungo il fiume. La
melodia riappare nella già citata Miracles, eterea ballata sul
tema dell’addio. Use you è rock-blues vitaminizzato nel groove
con tocchi dancefloor alla Francois Kevorkian (i fans ricorderanno il
suo remix di Personal Jesus). Dopo Insoluble,
probabilmente il tassello più debole della raccolta, insieme alla
conclusiva Down, un mood jazzy percorre i 5’ e 40” di Endless,
notturno amoroso (“I’m lost in a moment with you / It feels right / We’re
floating above the stars / You and I”) dal seducente tiro slow-electro.
Altro goal del cannoniere Gahan: A little lie, significativa per
testo, atmosfera, arrangiamento.
La novità di
Hourglass risiede in una maggiore cura dell’insieme, in un
linguaggio che riesce a farsi visione senza perdere l’orientamento
necessario per arrivare intatti alla compiutezza dell’opera. Queste sono
(finalmente) canzoni di una personalità che riesce a raccontare appieno
se stessa senza passare per vie traverse. Il re cammina a testa alta, si
rigira la clessidra tra le mani e sta sorridendo.
Nino G. D’Attis
Sito ufficiale di Dave Gahan |