Tom ha radunato i suoi
bastardi. Li ha chiamati a raccolta dopo averli tirati fuori dai
cassetti facendosi aiutare dalla moglie
Kathleen Brennan e dall’ottimo ingegnere del suono Karl
Derfler e il risultato è un album triplo d’altri tempi, ovvero di un’era
pre-iPod e canzoni confezionate con l’obiettivo di finire in qualche
spot televisivo di videofonini, automobili superaccessoriate, carta da
culo o quel che viene.
Tre ore e passa di
musica, più un ricco libretto di 94 pagine con testi e fotografie.
Brawlers, Bawlers e Bastards: Schiamazzatori,
Urlatori e Bastardi. La sua migliore sortita da molti anni
a questa parte, a mio modesto avviso. L’uomo di Pomona e le sue visioni,
quella poesia che incrocia puntualmente le strade di Faulkner e
Bukowski in qualche schifosa bettola da
lunatici invasa da fumo e chiacchere. Urla d’amore e di fede perduta o
ritrovata, storie di rabbia e malinconia: il blues dei licantropi, il
jazz caliginoso, il cabaret, il rock’n’roll e il santissimo bicchiere
della staffa, quello che ti porterà almeno in sogno tra le braccia della
donna che ti ha ferito a morte.
Sentimentale come un
coccio di bottiglia di bourbon in una scatola di cioccolatini: l’amore
dei reietti, dei vagabondi, degli ultimi della terra. Perciò ora c’è
questo forziere da vecchio pirata, questo baule da guitto che custodisce
un canzoniere perduto e ritrovato per la gioia di tutti gli ammiratori
di questa voce inconfondibile quanto quella di
Captain Beefheart.
Ci sono Walk away,
dalla colonna sonora di Dead man walking e
You can never hold back spring,
dallo score de La Tigre e la neve del suo grande amico italiano
Roberto Benigni; poi Down there by the train, già conosciuta in
una toccante versione incisa da Johnny Cash nel corso delle sue celebri
sessions supervisionate da Rick Rubin. Non mancano i sentiti omaggi a
Daniel Johnston (King Kong), Leadbelly (Ain’t goin’ down to
the well e la stupenda Goodnight Irene), ai Ramones (The
Return of Jack and Judy e Danny says, brani che ricambiano in
maniera eccellente l’omaggio tributato dalla band newyorkese ad I
don’t wanna grow up), a Kurt Weill (What keeps mankind alive).
Si pesca nelle acque territoriali di Nick Cave
(Lucinda) e si finisce piacevolmente nei paraggi dei due album
capolavoro di Waits, ovvero Swordfishtrombones e Rain dogs, con l’autore
impegnato a riappropiarsi dei “figli” prestati ad altri (è il caso di
Dog door, scritta per gli Sparklehorse e della ballata Long way
home, registrata recentemente da Norah Jones).
Un lavoro lungo e
impegnativo, tra registrazioni recuperate da nastri malridotti e nuove
sortite in studio per riarrangiare, risuonare ciò che risultava appena
abbozzato, remixare o addirittura riscrivere ex novo. In Low down,
Casey, figlio ventenne di Waits, suona le percussioni. Poor little
lamb è il frutto di una collaborazione a quattro mani con lo
scrittore William Kennedy (da noi
quasi sconosciuto, a parte Ironweed, romanzo che ispirò l’omonimo
film del 1987). In Lie to me sembra di sentire una band garage
stile Cramps che si esibisce in uno scantinato pieno di topi e muffa.
Il livello è quasi
sempre alto, in ogni caso lontano da opere minori come Real gone.
I bastardi di Tom vengono fuori ululando dalle notti più ispirate del
nostro e questo è un bene: quando un maestro urla e non si limita
semplicemente a scoreggiare, è sempre un buon segno.
J.R.D.
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