Sono
uno sciroccato che d’estate perde del tutto la testa. Sono il tipo di
persona che quando arriva l’afa ha bisogno di un nuovo tatuaggio, di molte
birre gelate e di una colonna sonora speciale per i colori e gli odori forti
tipici della bella stagione. Chiamatemi tamarro, ma se a maggio spunta un
nuovo disco dei Red Hot Chili Peppers è quasi certo che non riuscirò ad
ascoltare qualcosa di diverso fino a settembre (oh, beh...a parte i prossimi
lavori targati Sonic Youth e Primal Scream e
l’atteso debutto da solista di Thom Yorke,
voglio dire!).
Una volta andavo ad Anthrax, Metallica, Slayer
e Guns’n’Roses.
È
nella mia natura. «Chiunque osi remare contro la corrente della propria
natura è un imbecille destinato al fallimento» mi ha detto una volta Pogo,
un grasso barman di Oakland in felpa rosa puzzolente e bandana dei Grateful
Dead in seguito sospettato di aver fatto a pezzi la fidanzata offrendola in
pasto al suo pitone.
I
miei viaggi all’estero: un giorno me ne andrò a fare quattro passi sul suolo
di Marte, così dice il mio oroscopo. Me ne andrò lassù per disintossicarmi
definitivamente dalle scemenze terrene.
Così, se in giro si sussurra che i R. H. C. P. hanno già inciso il loro
capolavoro nel 1991, al sottoscritto non importa una sega. Lo sanno anche i
pulcini che BloodSugarSexMagik è un
classico al livello di Exile on main street degli Stones e di
Electric ladyland di Hendrix. Sono qui che mi sparo per la seconda volta
di seguito il consistente Stadium arcadium, un doppio che ha
rischiato di rivelarsi triplo, ha avuto una lunga gestazione ed è nato (in
California, naturalmente) sotto la buona stella del produttore
Rick Rubin. Sono qui che penso alle buone
vibrazioni che emana la chitarra di John Frusciante, musicista perennemente
assediato dai mostri abominevoli che perseguitano le rockstars di casa allo
Chateau Marmont, l’albergo in cui trovò la morte John Belushi (5 marzo 1982,
bungalow n. 3). E il disco gira maledettamente bene, garantisco. Con una
Paulaner ghiacciata, il portacenere pieno di cicche e tutti i miei
pensieri erotici lanciati a briglia sciolta in una stanza che fino a dieci
minuti fa ha ospitato una ragazza in top nero di cotone leggero che le
lasciava ben scoperto il pancino, i Peperoncini funzionano a meraviglia.
È
estate, porca miseria. Il sole picchia così forte sulla testa che (guarda un
po’) c’è il solito citrullo che minaccia nuove marce su Roma. Ai bei tempi,
i tipi così finivano su un letto di contenzione. Gli facevano indossare una
camicia di forza e via con le scosse elettriche in testa.
A
proposito di scosse, voglio dire che Dani
California è molto più di un bel pezzo: è la California che
occupa lo spazio breve di una canzone dedicata allo stesso personaggio
femminile cantato in By the way. E subito dopo c’è Snow (Hey Oh!)
perché da sempre i Peperoncini, oltre che al giorno pensano anche alle
notti d’estate, ai falò sulla spiaggia e agli amici che si ritrovano a
cantare pezzi come questo sotto una pioggia di stelle cadenti:
“The
more I see the less I know / The more I like to let it go...hey oh”.
La
traccia numero tre è una zampata funk con retrocarezze melodiche dal titolo
Charlie: basso tondo come il culo di Tera Patrick, inserti di
chitarra alla Santana piuttosto misurati e voce di Kiedis al meglio. Quando
arriva la title-track è tempo di ballatona sostenuta dal drumming del signor
Chad Smith tutto colpi precisi e campanellini assortiti: vampate di fuoco da
Death Valley, scorpioni che minacciano di pungere il nostro amore ma Sergio
Leone tornerà dalle verdi praterie per filmare la scena di me che estraggo
la Colt, ti salvo la pelle e benedico il nostro amore che trionfa su tutto
(però dopo me la dai, no?).
Hump de bump è un altro giro ultrafunk. Della serie: noi Red Hot siamo
amici di vecchia data dell’imperatore nero George Clinton e ora facciamo sul
serio e Jamiroquai ci ciuccia i calzini perché ci mettiamo una bella
trombetta e delle percussioni alla Brian Eno/David Byrne che producono i !!!
così tutti sono contenti. E se non dovesse bastare, fumatevi ‘sta
She’s only 18 (perché Lenny Kravitz era
partito bene ma ultimamente si è sbiancato troppo e sembra Bon Jovi
abbronzato). Siete ancora lì, stronzetti? Beh, c’è la Slow Cheetah,
una droga psichedelica che nel sound mi fa immaginare una jam
impossibile tra i Beach Boys e i Led Zeppelin
(il primo che se ne viene fuori con la battuta cretina: «Cambia spacciatore,
scemo!» me lo lavoro personalmente); quindi la roba per sesso
duro/selvaggio/senza freni dal titolo Torture me. Ritornello
micidiale che mette radici nella testa e ramifica, si espande come un
rampicante su un grattacielo di trecento piani. Mi riprometto di provarla
con la mia prossima cowgirl e intanto ho ancora 20 canzoni da recensire ma...ehi,
perché non ve ne andate a fare in culo e le scoprite da soli? Una dritta
però ve la voglio dare: il disco 1 (Jupiter) contiene l’assortimento
migliore, inclusa la comparsata di Billy Preston in
Warlocks. Non che il disco 2 (Mars) faccia venire il
latte alle ginocchia, anzi. Però non tutto è bene a fuoco (tipo le debolucce
Desecration smile, Tell me baby e She looks to me),
questo bisogna dirlo. Ma poi chissenefrega: come ripeto sempre, sono uno
sciroccato che d’estate perde del tutto la testa. Il tipo di persona che
quando arriva l’afa ha bisogno di un nuovo tatuaggio, di molte birre gelate
e di una colonna sonora speciale per i colori e gli odori e...
(J.R.D.)
www.redhotchilipeppers.com |