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DEPECHE MODE TOUR 2005-2006
 
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DEPECHE MODE: Sounds Of The Universe   (EMI)

Allora tutti a bordo, si parte stanotte per lo spazio profondo. Propulsore a ioni con una spinta dieci volte superiore a un motore a razzo ordinario per ogni chilogrammo di carburante utilizzato. La Route 66 è distante anni luce, ma l’equipaggio assicura che abbiamo una buona riserva di blues nella stiva (ricostruiranno New Orleans su Marte, lo sapevate?). Lo spirito è alto, cari amici vicini e lontani. La crisi? Una turbolenza al margine del sistema solare: la attraversi fiducioso e la pace sarà con te, fratello. E non solo: se proprio ci tenete a saperlo, le stelle brillano più chiare che mai, e l’intero universo sta cantando. E chi dice che non c'è suono nello spazio perché non c'è atmosfera per trasportare le onde sonore è un bugiardo di professione, garantisco. Oppure è un triste fan di qualche scalognata tribute band di quartiere, a voi la scelta.

   Il capitano Ben Hillier, già ai controlli del precedente Playing the Angel (2006) si è fatto carico delle responsabilità del caso. La missione principale consisteva anzitutto nel consolidare i risultati della fase di assestamento successiva ai dissapori interni (Gore e Gahan fratelli coltelli dopo Exciter, riappacificati da Fletcher per Playing the Angel). Il risultato? Un Hurrah per il capitano! Sounds of the Universe si rivela realmente magnifico fin dal primo ascolto, uno dei piatti forti nella personale galassia della band di Basildon, già costellata di affascinanti dischi volanti.

   Questa volta  l'hype del fan sentimentalmente legato a pietre miliari come Violator  o Songs of Faith and Devotion dovrà cedere giocoforza all’invito ad una sfida nuova (non è forse permeata di sfide, l’intera storia di questo gruppo?), qualcosa che attraversa e deforma le intuizioni degli album precedenti per tracciare una mappa inedita che dopo ripetuti ascolti comincia finalmente a svelarsi nella sua grandezza.

   Tra sibili, ronzii (le frequenze delle onde che permeavano il cosmo dopo il Big Bang?) parte In Chains, sostenuta da una graffiante chitarra funk dal vago sapore Seventies. E dopo arriva Hole to feed: “We are here, we can love / We share something / I'm sure that you'll mean the world to me / When you get, what you need / It's no way of knowing / What you get is another hole to feed.”  Beats urbani, profondità che si rivela nei testi come nel suono, consumandosi nella tensione tra spazio interiore ed esterno. Dave Gahan alle prese con versi amari di grande impatto emotivo, una riflessione a voce alta che prepara narrativamente il terreno alla successiva Wrong. Sentirsi fuori posto, nel momento sbagliato, quando il mondo ti ha lasciato qualcosa di rotto dentro. Canzoni di solitudine e di incomunicabilità: il vuoto è questa coscienza di esser soli, piantati lì a fluttuare da qualcuno/qualcosa, intrappolati in una macchina fuori controllo come il protagonista del video diretto da Patrick Daughters e interpretato dal batterista dei Liars Julian Gross.

   Fragile tension ha nel Dna sonoro qualcosa della Lilian apparsa sull’album precedente. Little soul vive di un intimismo elettroacustico e chiude con una chitarra bluesy. E se arrivati a questo punto vi è venuta voglia di muovere le gambe, ecco In Sympathy, già pronta per i remixers (la immagino nelle mani di William Orbit o Stuart Price, oppure rivisitata con il french touch di Laurent Garnier). Peace (mi aspettavo una lagna pacifista ma per fortuna non è così) mette miracolosamente insieme Kraftwerk, Beatles e Blur, mentre Come back si espande come una spirale che lascia storditi: un gospel di fede e devozione tormentato e lucido, una preghiera da insonne perché tutti i semi buoni nascosti del futuro possano germogliare. Poco meno di due minuti dura Spacewalker, interludio strumentale graziosamente retrò per i suoi rimandi allo Space Age Pop e alle colonne sonore di film e telefilm spy-fantascientifici anni ’50-’60. Che dire di Perfect? Titolo eloquente per una gemma pop che lascia senza fiato. Atmosfere più aspre, da blues acido, in Miles away/ The Truth is, brano che non avrebbe sfigurato in una delle gloriose Desert Sessions di Josh Homme. I due colpi di grazia arrivano con Jezebel e Corrupt: la prima, cantata da Martin Gore è un pezzo di straordinaria eleganza, dominato dal crooning soffuso e caldo del musicista; appartiene a buon diritto allo scrigno che già custodisce Somebody e One Caress. La seconda è una zampata bastarda sorretta da uno stomp electro-clash accoppiato ad un riff scorticante che ricorda quello che faceva girare I Feel You.

   È la fine del disco, ma viene subito voglia di farsi un altro giro sulla giostra.

   I Depeche Mode del 2009 offrono un viaggio interstellare tutto compreso per anime erranti su questa terra.

 

(J.R.D.)