Allora tutti a bordo, si
parte stanotte per lo spazio profondo. Propulsore a ioni con una spinta
dieci volte superiore a un motore a razzo ordinario per ogni chilogrammo
di carburante utilizzato. La Route 66
è distante anni luce, ma
l’equipaggio assicura che abbiamo una buona riserva di blues nella stiva
(ricostruiranno New Orleans su Marte, lo sapevate?). Lo spirito è alto,
cari amici vicini e lontani. La crisi? Una turbolenza al margine del
sistema solare: la attraversi fiducioso e la pace sarà con te, fratello.
E non solo: se proprio ci tenete a saperlo, le stelle brillano più
chiare che mai, e l’intero universo sta cantando. E chi dice che non c'è
suono nello spazio perché non c'è atmosfera per trasportare le onde
sonore è un bugiardo di professione, garantisco. Oppure è un triste fan
di qualche scalognata tribute band di quartiere, a voi la scelta.
Il capitano Ben Hillier,
già ai controlli del precedente Playing the Angel
(2006) si è fatto
carico delle responsabilità del caso. La missione principale consisteva
anzitutto nel consolidare i risultati della fase di assestamento successiva
ai dissapori interni (Gore e Gahan fratelli coltelli dopo Exciter,
riappacificati da Fletcher per Playing the Angel). Il risultato? Un
Hurrah per il capitano! Sounds of the Universe si rivela realmente
magnifico fin dal primo ascolto, uno dei piatti forti nella personale
galassia della band di Basildon, già costellata di affascinanti dischi
volanti.
Questa volta l'hype del
fan sentimentalmente legato a pietre miliari come
Violator o
Songs of Faith and Devotion dovrà cedere giocoforza all’invito ad una
sfida nuova (non è forse permeata di sfide, l’intera storia di questo
gruppo?), qualcosa che attraversa e deforma le intuizioni degli album
precedenti per tracciare una mappa inedita che dopo ripetuti ascolti
comincia finalmente a svelarsi nella sua grandezza.
Tra sibili, ronzii (le
frequenze delle onde che permeavano il cosmo dopo il Big Bang?) parte
In
Chains, sostenuta da una graffiante chitarra funk dal vago sapore
Seventies.
E dopo arriva Hole to feed: “We are here, we can love
/ We share something / I'm sure that you'll mean the world to me / When you
get, what you need / It's no way of knowing / What you get is another hole
to feed.” Beats
urbani, profondità che si rivela nei testi come nel suono, consumandosi
nella tensione tra spazio interiore ed esterno. Dave Gahan alle prese con
versi amari di grande impatto emotivo, una riflessione a voce alta che
prepara narrativamente il terreno alla successiva Wrong. Sentirsi
fuori posto, nel momento sbagliato, quando il mondo ti ha lasciato qualcosa
di rotto dentro. Canzoni di solitudine e di incomunicabilità: il vuoto è
questa coscienza di esser soli, piantati lì a fluttuare da
qualcuno/qualcosa, intrappolati in una macchina fuori controllo come il
protagonista del video diretto da Patrick Daughters e interpretato dal
batterista dei Liars Julian Gross.
Fragile tension
ha nel Dna sonoro qualcosa della Lilian apparsa sull’album
precedente. Little soul vive di un intimismo elettroacustico e chiude
con una chitarra bluesy. E se arrivati a questo punto vi è venuta voglia di
muovere le gambe, ecco In Sympathy, già pronta per i remixers (la
immagino nelle mani di William Orbit o Stuart Price, oppure rivisitata con
il french touch di Laurent Garnier). Peace (mi aspettavo una lagna
pacifista ma per fortuna non è così) mette miracolosamente insieme
Kraftwerk, Beatles e Blur, mentre Come back si espande come una
spirale che lascia storditi: un gospel di fede e devozione tormentato e
lucido, una preghiera da insonne perché tutti i semi buoni nascosti del
futuro possano germogliare. Poco meno di due minuti dura Spacewalker,
interludio strumentale graziosamente retrò per i suoi rimandi allo Space Age
Pop e alle colonne sonore di film e telefilm spy-fantascientifici anni
’50-’60. Che dire di Perfect? Titolo eloquente per una gemma pop che
lascia senza fiato. Atmosfere più aspre, da blues acido, in
Miles away/
The Truth is, brano che non avrebbe sfigurato in una delle gloriose
Desert Sessions di Josh Homme. I due colpi di grazia arrivano con
Jezebel e Corrupt: la prima, cantata da Martin Gore è un pezzo di
straordinaria eleganza, dominato dal crooning soffuso e caldo del musicista;
appartiene a buon diritto allo scrigno che già custodisce Somebody e
One Caress. La seconda è una zampata bastarda sorretta da uno stomp
electro-clash accoppiato ad un riff scorticante che ricorda quello che
faceva girare I Feel You.
È la fine del disco, ma
viene subito voglia di farsi un altro giro sulla giostra.
I Depeche Mode del 2009
offrono un viaggio interstellare tutto compreso per anime erranti su questa
terra.
(J.R.D.)
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