Che noia, la voce di
Beth Gibbons.
Ogni disco la stessa storia: una vecchia sirena rintronata che, seduta
al bancone di un pub giù al porto, ti ammalia per un paio di canzoni,
poi diventa fastidiosamente stucchevole più o meno come il suo
conterraneo Robert Wyatt.
Beth è dolente, intensa, profonda,
d’accordo. Però dopo un po’ non la reggi: ti urta i nervi più o meno
come l’amica che ti ammorba ogni santo giorno con la struggente storia
della sua infelicità coniugale aggravata dai figli piccoli che
collezionano Bratz e Gormiti. Peccato, perché, sotto il profilo
strettamente musicale, questa volta i suoi compagni di squadra
Geoff
Barrow ed Adrian Utley offrono un tessuto sonoro che merita attenzione
specialmente quando diventa aggressivo, noisy, incalzante e severo.
Allora il compromesso può essere: prendiamo ‘sto disco a piccole dosi,
tipo un antibiotico che se non stai attento provoca degli effetti
indesiderati, tipo reazioni allergiche dovute alla sensibilità
dell'individuo verso uno o più componenti. Perché, tralasciando le
paturnie di zia Beth, la carne che gira sul fuoco è di prima qualità.
Barrow ed Utley hanno studiato sodo
(materiale didattico di base: i Can ed i Velvet Underground più
sperimentali); se ne sono infischiati della ricetta buona per tutti i
palati, della musica scratchata e melodica adatta tanto ad una fattanza
radical-chic quanto ad uno spettacolino di strip in un locale di infimo
ordine.
Silence,
il pezzo d’apertura, è la vera perla di un nuovo lavoro che arriva dopo
una lunghissima attesa per gli estimatori del progetto di Bristol.
Undici anni di silenzio discografico, poi questo brano secco, dark alla
maniera dei P.I.L. di Flowers of Romance, sostenuto da un gioco
di chitarra schizoide + rullante bieco che ti afferra alla gola. Con
l’elegante mood alla Angelo Badalamenti di Hunter, il livello
resta elevato anche sotto il profilo lirico.
Il testo dice:
“I stand on the edge of a broken sky / And I will come down / don't know
why / And if I should fall, would you hold me? / Would you pass me by?”
E ti senti una merda da marciapiede, anche se sai perfettamente che alla
lunga la zia Beth ti romperà i coglioni quando la poesia scivolerà nella
lagna.
“For you know I'd ask you for nothing / Just to wait for a while…”
Catastrofe. Ombre che pretendono attenzione da una coscienza smemorata e
colpevole. Suggestioni nelle quali l'allucinazione è l’esito di una
esasperazione nervosa portata all'estremo. Non sai se potrà mai spuntare
un fiore tra le rovine: ecco di cosa parla Third.
La visione d’insieme si è
allargata: c’è più elettronica rispetto al passato (belli i beats
vagamente industrial del singolo Machine gun, belli i tocchi
vintage di stampo kraut-rock) e solo in Plastic e Magic doors
l’ensemble torna (senza infamia e senza lode) nei territori trip-hop che
li hanno portati alla gloria. Altri due pezzi forti del lotto sono
Nylon smile, affidata ad una chitarra livida e misurata come quella
dei King Crimson versione anni Ottanta e alla zietta che fa degli
“Ooooohhhh” alla maniera del nipotino Thom Yorke. E mi piacciono anche
gli oltre sei minuti electro-dark di We carry on e la teutonica
Small. Mi piacciono come Spider di Cronenberg, un film che
alla sua uscita non apprezzò quasi nessuno, ma questa è un’altra
storia.
Mannaggia, è proprio bello ‘sto
dischetto. A piccole dosi lo senti come qualcosa di importante. Se solo
la zia avesse scelto di mettersi un po’ da parte…
(J.R.D.)
Sito ufficiale dei Portishead
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