“A
moving aria for a vanishing style of mind”
Comincia con queste parole l’ultimo album inciso da Scott Walker. Il primo,
a undici anni di distanza dal precedente Tilt
(escludendo la colonna
sonora originale del film Pola X di Léos Carax nel 1999), il
quattordicesimo della sua carriera come solista.
Lo
metti su (consigliato l’ascolto in cuffia, volume al massimo) e di colpo ti
ritrovi a pensare che questo The Drift potrebbe essere il lungo
delirio di un malato di mente oppure il disco più autenticamente rock delle
ultime due o tre decadi. La risposta, probabilmente, è: entrambe le cose.
Mi
sono documentato: diverse voci – autorevoli o meno non fa differenza –
affermano che incontrare la musica di Scott Walker è un’esperienza che
rimanda a un bel po’ di nomi della musica e dell’arte tutta. In ordine
sparso: Ligeti, David Lynch, Bowie, Nick Cave, Schönberg, Jacques Brel,
Tim
Buckley, i Nine Inch Nails, Brian Wilson e...non c’è da uscire fuori di
testa?
Quella di Walker, vero nome Noel Scott Engel, è una storia lunga e curiosa.
Nato il 9 gennaio del 1943 ad Hamilton, Ohio, famoso tra la fine degli anni
Cinquanta e il primo scorcio dei Sessanta soprattutto come componente dei
The Walker Brothers, sorta di proto-boy band di pop-soul bianco, alcolista
duro negli anni Settanta. I Walker Brothers si sciolgono nel 1967 e tentano
la carta della reunion nel 1975. Dopo una manciata di dischi ancora
accessibili (Scott; Scott 2 e Scott 3 godono di ottimo
successo in Inghilterra), il nostro si incammina verso territori impervi
che, pur allontanandolo dalla gloria delle charts, lo renderanno – parole
sue – “l’Orson Welles dell’industria discografica”. Un musicista di culto,
chiamato nel 2000 a curare il programma del Meltdown festival; produttore
nel 2001 del disco dei Pulp We love life; premiato nel 2003 dalla
rivista britannica Q per il suo contributo alla musica contemporanea
(onore riservato in precedenza solo a Phil Spector e a Brian Eno).
Altre collaborazioni di rilievo: Ute Lemper, The Richard Alston Dance
Project, Goran Bregović, Nick Cave (il brano, datato 1996, è I Threw it
all away), la soundtrack del film 007 – The World is not enough
(incide la canzone di David Arnold Only myself to blame).
Più di recente, il filmaker newyorkese Stephen Kijak ha portato a termine il
documentario Scott Walker: 30 Century man che include sequenze girate
durante la lavorazione dell’ultimo disco ai Metropolis Studios di Londra,
oltre ad interviste a Gavin Friday, Radiohead, David Bowie (anche
produttore esecutivo del film) ed altri musicisti.
The Drift giunge nei negozi sotto il marchio 4AD e raccoglie degnamente
l’eredità di Tilt, album di confine, oggetto anticommerciale che
omaggiava Pasolini in una sorta di “aldilà” della musica tutta. C’è soul e
blues in queste dieci tracce, ma non sono il soul e il blues che tutti
conosciamo perché The Drift è una sfida all’ascoltatore, una stanza
degli orrori (i fantasmi di Claretta Petacci e Benito Mussolini nella
lunghissima Clara; il gemello morto di Elvis Presley in Jesse;
le gesta di Milosevic in Buzzers), dei turbamenti dell’anima e,
ancora, un film o un romanzo per le orecchie: spiazzante, ostico, mutante,
free-form. Tutto è oscuro come il bellissimo artwork di Vaughan Oliver
scelto per la copertina; non ci sono vie di fuga, neppure nell’acustica
chiusa di A Lover lovers, enigmatico sigillo che sembra riportare
pressappoco alla forma canzone:
“This is a waltz for a dodo / A samba for Bambi / Gavotte for the Kaiser /
Bolero for Beuys / A reel For Red Rosa / A polka for Tintin...”
La
voce baritonale di Walker è l’asse portante del lavoro. È una voce che ha
fatto tesoro del crooning vecchio stampo (Sinatra e Tony Bennett), del
lirismo di Brel e del canto gregoriano e adesso si muove perennemente in
equilibrio su un muro sonico industrial-cameristico. Orchestra e rumori,
percussioni selvagge, ragli d’asino (Jolson and Jones), effetti
sonori che arrivano all’improvviso, simili a violente scosse sismiche.
Destrutturazione continua. Lamenti e grida con isolate aperture melodiche.
In The Escape (Thank you Mr. K) il labirinto si allarga, diventa
abisso infernale, minaccioso punto di non ritorno.
Che razza di disco è questo? Me lo chiedo ancora, al quarto ascolto. Walker
forza le porte della pigrizia di tanti suoi illustri colleghi, è un chirurgo
che interviene sul corpo della musica senza anestesia, assistito da un team
di altissimo livello (Vanessa Contenay-Quinones, già con
A Guy Called Gerald,
è seconda voce voce in Clara; John Giblin suona il basso in quattro
brani; Peter Walsh supervisiona la produzione). Irritante e geniale: lo zio
putativo di Trent Reznor, il socio mancato dei Suicide, l’anello di
congiunzione tra LaMonte Young e il Lou Reed di Metal Machine Music.
(N.G.D’A.)
Sul
Web:
http://www.4ad.com/scottwalker/
http://www.scottwalkerfilm.com/blog/
http://www.thewire.co.uk/web/umpublished/scott_walker.html |