GRCD
651: prendete carta e penna e segnatevi ‘sto codice da qualche parte.
Ripeto: Gierrecidi (sì, quasi come pronunciare il nome del vostro
affezionato recensore) sei-cinque-uno. È il numero di serie di un signor
disco, ragazzi miei. È il numero di catalogo di un capolavoro che spunta
all’improvviso nel gran deserto del nulla rifritto che ancora chiamano
musica rock. Quattro anni separano la nuova prova discografica della
creatura di David Thomas (un grand’uomo, sia
detto a beneficio dei posteri ma anche dei suoi stupidi contemporanei) dal
precedente St Arkansas, all’incirca un trentennio da The Modern
dance, esordio seminale recentemente ristampato in edizione deluxe, e
almeno decine di migliaia di eoni che qualcuno non metteva il sottoscritto
in condizione di predisporsi all'equilibrio di fronte all'inaspettato.
I
Pere Ubu stanno bene. Invecchiano anagraficamente, mentre sul versante
strettamente artistico continuano ad aggiungere altri tasselli interessanti
al loro superbo mosaico sonoro. C’è un nuovo membro a bordo:
Keith Moliné, chitarrista già rodato da Thomas
nel progetto parallelo Two Pale Boys e che ora
sostituisce il dimissionario Tom Herman. Alcune sessions in fattorie isolate
o stanze d’albergo (che immagino polverose e malfamate) hanno dato
l’ossatura agli undici brani registrati insieme all’ingegnere del suono Paul
Hamann in uno studio di Painesville, Ohio.
Why I hate women,
titolo che omaggia lo scrittore americano Jim Thompson
(il riferimento è, a quanto pare, ad un libro che l’autore avrebbe voluto
scrivere), è una sorta di concept album interamente costruito su atmosfere
noir.
“This is an irony-free recording”, avverte una scritta all’interno
dell’esiguo booklet.
Disco
senza ironia, insomma. Cupo e distorto, semmai cucinato in salsa grottesca,
come piace allo chef. Bellissimo: prendete l’iniziale Two girls (one bar)
e vi sembrerà di sentire i P.I.L. di John Lydon
in gran tiro. Oppure la successiva Babylonian warehouses, bluesaccio
meccanico, ipnotico, da occhi tristi, tutto giocato su una melodia vocale
che ricorda Ian Curtis e i Joy Division. E
Caroleen, convulso gioiello (post) garage, (post) punk, (post) wave,
post minchiate assortite: il tipo di canzone che ti fa sentire più uomo
anche il giorno dopo l’ultima sgradita visita del tuo padrone di casa per
riscuotere l’affitto. E Mona, tirata e depravata per due minuti e
quarantasette secondi nell'hard-core di visioni aliene da crisi epilettica.
E Synth farm, una roba cigolante tra Captain
Beefheart e i Soft Machine del primo album (CAZZO! Proprio uno
sballo!).
Patafisica per chitarre distorte, ronzii
submolecolari e blues endogeno da “amico mio, mi sa che stanotte sei
capitato nel posto sbagliato!”. Come nel talkin’ micidiale della conclusiva
Texas overture. Come in quei dischi che si facevano una volta e che
si potevano ascoltare e riascoltare senza problemi all’infinito perché
guardavano direttamente al futuro.
(J.R.D.)
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