Speak
& Spell
(1981)
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Il debutto, dopo la firma con l’allora neonata Mute Records di
Daniel Miller e l’antipasto dei singoli Dreaming of me e
New life. Acerbo, data la giovanissima età dei componenti
della band, eppure carico di promesse che nel tempo verranno
mantenute. Punto di forza: il trascinante singolo Just can’t
get enough. Momento critico: Vince Clarke, all’epoca motore
del gruppo e autore di quasi tutti i brani, abbandonerà la nave
per dedicarsi prima agli Yazoo, poi agli Assembly e ancora agli
Erasure.
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Broken Frame(1982)
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Martin Gore al timone, Alan Wilder in veste di turnista. La band
cerca di sopravvivere all’assenza di Clarke e comincia a
prendere progressivamente le distanze dai molti gruppi
specializzati in pop adolescenziale e in generale dall’armata
deprimente (quando non proprio gonfiata dai critici rock e dalle
etichette discografiche) dei ‘New Romantics’. La stampa, in
particolare quella inglese, storce il naso ed è convinta (a
torto, naturalmente) che senza Clarke la parabola dei D.M. sia
già finita. In questo disco ci sono See you e Leave in silence
ma anche The Sun and the rainfall.
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Construction time again
(1983)
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Wilder
ufficialmente in formazione (sue
The Landscape is changing
e Two minutes warning).
Registrazioni a Berlino con missaggi agli studi Hansa Mischraum resi
immortali nel decennio precedente dalla trilogia di Bowie/Eno e da The
Idiot di Iggy Pop. Copertina comunista, scrittura sicuramente più
adulta, con una specifica attenzione al sociale e un gioiellino come
Everything counts nella tracklist finale.
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Some
great reward
(1984)
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Opera
numero quattro: la sfida continua e porta il gruppo ad una maturazione
ulteriore. Il pubblico apprezza, la schiera dei fans si estende
sensibilmente e nei club S/m si balla (frustino alla mano) vestiti di latex
sulle note di Blasphemous rumours e della cupissima Master and
servant. La città scelta per le sessions è ancora Berlino, la copertina
fa pensare alle storie di James G. Ballard: metallo, cemento e promesse
d’amore eterno. Qui trovate il supersingolo People are people, ma
anche un’intensa ballatona da palpiti, sospiri e pelle d’oca come
Somebody.
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The
Singles 81-85
(1985) |
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Prima
antologia dei Depeche Mode, un esaustivo riassunto delle puntate precedenti
che comprende le inedite Shake the disease e It’s called a heart
e, nella successiva ‘Re-mastered edition’ pubblicata nel 1998, anche
Photographic (Some Bizzarre version) e Just can’t get enough (Schizo
mix).
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Black
celebration
(1986)
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L’opera
al nero è anche un lavoro in alcuni passaggi fortemente politico (New
dress) che non rinuncia tuttavia a raccontare il privato (A Question
of lust, ottima prova vocale di Gore). Suoni tenebrosi, copertina
austera, una title-track possente in cui la melodia sposa ritmi che devono
molto all’industrial targato Clock DVA e dei tedeschi Einstürzende Neubauten.
In Italia vanno ospiti al Festival di Sanremo per presentare Stripped,
il primo singolo estratto.
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Music
for the masses
(1987)
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Da
Berlino a Parigi, città scelta per le sessions del primo vero best seller
targato D.M. La produzione è affidata a Dave Beascombe e con questo disco la
band inaugura un sodalizio con l’artista Anton Corbijn, chiamato a curarne
l’immagine. Strangelove e Never let me down again (più tardi
ripresa da un loro fan di lusso, ovvero Billy Corgan) sono le punte
di diamante dell’album e dall’Europa agli States tutti vogliono vedere dal
vivo i ragazzi di Basildon.
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101
(1989)
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Doppio
disco dal vivo che, insieme all’omonimo documentario diretto da DA
Pennebaker, immortala la band davanti alle 70.000 anime del Rosebowl di
Pasadena il 18/06/1988. Il Music for the masses Tour è un trionfo e
si sente: dopo l’intro strumentale Pimpf si parte alla grande con
Behind the wheel. Venti canzoni in tutto, più il booklet fotografico di
Corbijn. Da sogno le esecuzioni di Strangelove e Somebody. È
il decollo definitivo, almeno dal punto di vista artistico. Sul piano
strettamente umano invece, il successo comincia inesorabilmente a mostrare
il suo lato oscuro, con Gahan che scivola verso la tossicodipendenza e
Fletcher colpito da esaurimento nervoso.
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Violator
(1990) |
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Cominciamo
dal nome del produttore: Flood (U2, New Order e più tardi i Nine Inch Nails).
Tra chitarroni bluesy e primi aliti spiritual, siamo al capolavoro assoluto
dei Depeche Mode, l’album (in parte inciso in Italia) con Personal Jesus,
Policy of truth ed Enjoy the silence. Anche la copertina
scelta non è da meno: la rosa su fondo nero è un simbolo legato
perfettamente al titolo del disco e al periodo di burrasca che la band sta
attraversando.
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Songs of faith and devotion
(1993) |
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I
problemi personali non intaccano la vena compositiva del gruppo, qui
impegnato in un’operazione che tende ad esplorare le possibili commistioni
tra elettronica, gospel e rock. Gahan fa base a Los Angeles e incarna ormai
l’archetipo della rockstar paranoica e maledetta. Esemplari in questo senso
le liriche di Walking in my shoes, nella quale ricorrono termini come
“morality”, “decency” e “absolution”. Una confessione a cuore aperto: il
pubblico è in delirio.
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Songs of faith and devotion live
(1993) |
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Il
gemello del disco precedente, con gli stessi brani catturati nella
dimensione live. È l’ultimo documento sonoro con Alan Wilder in formazione:
oltre alle frustrazioni accumulate per divergenze artistiche (soprattutto
per il poco spazio concessogli da Gore in sede compositiva), il musicista si
dichiara schifato e stanco degli eccessi che hanno reso il gruppo schiavo di
droghe, alcolici e sesso facile.
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Ultra
(1997) |
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Tim
Simonon produce, i D.M. superstiti portano faticosamente a termine le
registrazioni di un disco ruvido, aggressivo e proprio per questo bellissimo
nei suoi momenti più riusciti (Useless e l’hit Barrel of a gun,
con video inquietante). Gahan lotta con i suoi fantasmi, la critica musicale
prende nota dell’influenza esercitata dal gruppo sulle nuove leve
dell’elettronica e del rock in generale. Il disco, neanche a dirlo, è un
ennesimo centro pieno. |
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The
Singles 86-98
(1999)
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Stavolta
la raccolta è doppia e attraversa più di un decennio di carriera includendo
nel booklet i testi di tutte le canzoni. Un solo (ottimo) inedito: Only
when I lose myself. Durante il tour promozionale per l’antologia, la
band allarga la line-up a Peter Gordeno (tastiere) e Christian Eigner
(batteria).
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Exciter
(2001)
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Un
disco sicuramente minore, ma in ogni caso un lavoro che non delude i fans e
che riesce a farsi apprezzare meglio solo dopo ripetuti ascolti. Gahan
sopravvive al peggio e rinasce come uomo e come artista. Produce Mark Bell
(già con Björk), rispetto al precedente Ultra si segnala una
schiarita verso il pop. Dream on è il singolo apripista, accompagnato
da un video che sembra omaggiare Strade perdute di David Lynch.
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Remixes 81-04
(2004)
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Ci
sono gli Underworld. C’è Timo Maaas. C’è una Enjoy the silence
rifatta ex novo: questo triplo cd (disponibile anche in due versioni
condensate singola e doppia) è l’attestato di stima presentato ai D.M. da
una torma di maestri del remix, una collezione di classici rivisitati in
diverse versioni buone per la pista da ballo ma anche per un ascolto in
cuffia. I D.M. ringraziano e arricchiscono la raccolta con i loro interventi
personali finora sparsi su singoli e white labels ad uso e consumo dei dj’s.
L’ideale interludio prima del grande rientro.
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Playing the angel
(2005)
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Martin
e David fanno pace e a quest’ultimo (reduce da Paper monsters, la sua
prima prova come solista uscita nel 2003), l’amico di vecchia data concede
più spazio in sede compositiva (Suffer well, I want it all e
Nothing’s impossible). I D.M. restano insieme («Siamo i Rolling
Stones dell’elettronica» ironizza Gahan), chiamano Ben Hillier a produrre e
sfornano un disco meraviglioso e potente, bello nelle liriche, forte nei
suoni: la sintesi perfetta di una storia che continua a regalare splendide
emozioni.
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