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RECOIL: SUBHUMAN (Mute)

RECOIL SUBHUMAN

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Sette anni separano Liquid dal nuovo album dell’ex Depeche Mode Alan Wilder sotto la sigla Recoil. Dalla ambient music del primo disco 1+2 e di Hidrology, pubblicati rispettivamente nel 1986 e nel 1988, e passando attraverso il flirt con la EBM di Bloodline (1992), si arriva al blues miscelato all’elettronica di subHuman dopo altri due lavori (Unsound Methods, 1997 e Liquid, 2000) contraddistinti da un lento ma palese recupero di un discorso interrotto da Wilder all’indomani della sua fuoriuscita dal gruppo madre.

   L’orgoglio fa brutti scherzi, le regole dello show-biz sono quelle (difficilmente si torna indietro alla base, a meno che non si tratti di una reunion estemporanea), ma a prestar bene l’orecchio a questi ultimi 7 brani appena sfornati sembra proprio che all’ex ragazzo di Hammersmith i vecchi compagni Gore, Fletcher e Gahan manchino eccome. Proprio quel trio che dopo il 1° giugno 1995 sembrava destinato allo sbando e che invece, tra non poche difficoltà, sopravvisse alla rottura dando alle stampe nello stesso anno di Unsound Methods lo stupefacente Ultra prodotto da Tim Simenon.

    La storia è nota: Alan mollò i Depeche Mode stremato dagli eccessi della vita in tour. Infilò piccato la porta motivando la separazione come un accumulo di frustrazioni legate alla mancata approvazione del lavoro svolto fin lì dalla sua bella testa, dalle sue prodigiose mani di polistrumentista, arrangiatore, producer. Alan Alan Wilderaveva un ego, ogni altro membro dei Depeche Mode ne possedeva probabilmente altri dieci di riserva, così non ci fu verso di rimediare allo strappo.

   Meglio una one man band, allora, con interlocutori diversi di volta in volta (Diamanda Galás,  Sonia Madden, Moby, la poetessa Nicole Blackman, tanto per fare qualche nome eccellente). Meglio il lavoro solitario e maniacale in studio di registrazione: ore e ore a provare e riprovare caricando un sample dietro l’altro, smontando all’infinito le partiture orchestrali. Le ore diventano giorni, settimane, mesi, anni: Alan è sempre stato un perfezionista, nessun mistero in questo. Alan è severo con se stesso e a volte ha perso di vista l’immediatezza, quella giusta percentuale di “sporco” che rende intrigante un disco che non sia di Bon Jovi o dei Def Leppard. È interessante tuttavia notare quanto il sound che permea subHuman abbia per la prima volta delle possibilità concrete di scalfire persino le resistenze dello zoccolo duro dei fans dei Depeche Mode. Un disco in larga misura meno ostico rispetto ai precedenti, più sanguigno (complice la voce del bluesman della  Louisiana del Sud Joe Richardson, contrapposta alle eteree trame vocali della cantautrice Carla Trevaskis), con qualche debito nei confronti di Songs of Faith and Devotion e una curiosa attenzione verso il lavoro di altri colleghi (il Moby di Play, i Massive Attack, i Portishead, ma anche – sorpresa - certe cose di Miles Davis). Liriche sofferte (prigioni reali e metaforiche, religione e rovina nei versi cantati da Richardson), di redenzione cercata nei piccoli gesti quotidiani piuttosto che nelle ingannevoli promesse del potere. La terra sta male. Tutti noi stiamo male ma…ehi, probabilmente la soluzione è tutta lì, basta ricominciare a domandarci: “Che cosa ci rende davvero umani?”

Prey RecoilTanta vitalità si avverte nel singolo Prey e in una traccia come 5000 years (spari, slide guitar, armonica, rullante e voce riarsa: il detective Harry Angel deve essere ancora da qualche parte nella New Orleans del dopoguerra, in cerca della sua anima venduta a Satana). Più complessa la trama di The Killing ground: quasi dieci minuti di incedere epico e coloriture world in sovraccarico. Meglio Intruders, con una riuscita coda jazzy che trascina l’ascoltatore in un vortice ipnotico senza pari. Meglio 99 to life, con il suo bel gioco di coppia chitarra/batteria e il blues che diventa ancora più rovente, fino a cancellare dalla memoria la monotonia di Liquid. I Recoil sono in fase di reload e questa è una buona notizia che lascia ben sperare: Alan Wilder deve essere tornato sulla terra. Alan Wilder ha tirato fuori i vecchi nastri con i giri di chitarra malati di Personal Jesus e I Feel you. Alan Wilder ha abbandonato per un po’ la brughiera ed è tornato a farsi un giro nei paraggi di Pasadena. Magari è vero che si è rotto le palle di sentirsi domandare se un giorno rientrerà nei Depeche Mode. Provate a chiederglielo un’altra volta e correte a ripararvi da qualche parte prima che sia troppo tardi. Eppure, se non ci fosse di mezzo quel maledetto orgoglio…

 

(N.G.D’A.)

www.recoil.co.uk

www.recoil19.net

 

Intervista ad Alan Wilder (italiano)

Interview with Alan Wilder (english)