Madonna
non è mai stata farlocca. Astuta, coriacea manager di se stessa, ma mai
patacca. E la sua stella brilla da un ventennio, resiste agli eserciti di
patetiche bamboline da una stagione in classifica, tutte puntualmente
bocciate all’esame d’ammissione all’oltrepop. L’oltrepop è la capacità di
resistere all’incuria del tempo, ai capricci delle mode. L’oltrepop è la
password d’accesso che ti permette di entrare nell’Olimpo delle grandi icone
dalla porta principale. L’oltrepop è ciò che hai avuto da bambino da zero a
dieci anni: un megaschermo con impianto audio quadrifonico sul quale
proiettare ininterrottamente una versione ultra/altra di te stesso.
Vitalità e carnalità senza scrupoli; mistero di un sogno che rifiuterà
perpetuamente di assolvere la realtà: ecco le armi dell’icona. Le avevano
Elvis e Jim Morrison, Marlene Dietrich, Mae
West e Rita Hayworth, oggi le ritroviamo in
Johnny Depp e Uma Thurman, nella signora Ciccone e in
Kylie Minogue. Oltrepop: una pelle iniziatica eterna, inalienabile,
che non è sinonimo di grossolana maschera.
Sto scrivendo un pezzo sul nuovo album di Madonna, il migliore da diversi
anni a questa parte. Curioso come il 2005 abbia segnato il credibile ritorno
in pompa magna di tre nomi degli anni Ottanta del secolo scorso: New Order
con Waiting for the siren’s call e adesso (nei tempi supplementari),
i Depeche Mode del superbo Playing the angel
e, appunto, la (pri)Madonna di Confessions on a dancefloor.
Nessuna nostalgia, solo una semplice, piacevole constatazione: salvo
rarissime eccezioni (White Stripes, !!!, LCD
Soundsystem i primi e probabilmente unici nomi che mi sovvengono), al
momento è dura trovare gente di primo pelo in grado di sfornare dischi
memorabili.
Sul nuovo sforzo produttivo di Madonna è già stato detto praticamente tutto:
è brutto, è bellissimo, è un capolavoro, è una ciofeca, è piatto, è
pompatissimo, è furbo, è Donna Summer rianimata
dai Daft Punk, è il cavalier Moroder immortalato mentre si spazzola i
lustrini dalla giacca, è la mirror ball del Danceteria che si schianta su
Ground Zero, è Warhol nell’era della videocomunicazione, è il frutto di un
felice connubio tra la star, il “già testato” Mirwais e
Stuart Price (a.k.a. Jacques Lu Cont, a.k.a.
Les Rhythmes Digitales), è testosterone a caccia di sesso, è aerobica pura e
semplice, è un tesoro di omaggi più o meno nascosti (Abba, Stooges, Prodigy,
i Police di Every breath you take) e solenni autocitazioni (Like a
prayer innestata nel tessuto di Push).
Vocoder. Tacchi a spillo. Paillettes. Capelli alla Farrah Fawcett. Un
pizzico di french touch nel calderone del soul dell’avvenire e un po’ di
spiritualità come ai tempi di Frozen.
Dimentico qualcosa? Ah, certo: gli Stooges riprocessati elettronicamente in
I love New York (ah, se l’avesse cantata Kim Gordon dei
Sonic Youth, chissà quante eiaculazioni tra i
critichini indie!) e il recitato del rabbino Yitzhak Sinwami in coda a un
brano (Isaac) che ha procurato un violento attacco di gastrite a
mezza comunità ebraica.
Qui si balla. Qui si roteano le pupille e il bacino. Qui si muove il culo
sul serio, e il ritmo ti avvolge, ti collega a un cavo elettrico innescando
una botta sacrosanta tirata al limite della vertigine. Curve e velocità
supersonica. È la vita oltre Magalli, il maestro Mazza, Lory Del Santo
intervistata da Bruno Vespa, il carovita e le palle che ti si gelano mentre
aspetti un autobus in ritardo di quaranta minuti. “Forget your problems”,
sussurra la diva in Future lovers.
A
questo serve il pop perfetto: buon umore, iniezioni di energia. Se ascolto
Hung up e Jump, la merda
scompare. Se mi perdo nell’intelligente esperimento retro-disco di Get
together, nelle pulsazioni kraftwerkiane di How high oppure
nell’inciso New Order oriented di Forbidden
love, il deserto che ho intorno mi appare improvvisamente più
suggestivo. È il funk. È l’effetto-risucchio. È un’illusione. Pochi minuti
di inganno dei sensi senza effetti collaterali. Madonna è sempre
stata/sempre sarà la grande effigie seduttrice, naiade e satiressa,
un’apparizione che ammalia, una tentatrice che Baudelaire avrebbe incluso
volentieri nel suo delizioso bestiario di esseri a parte, una Circe che
domanda scusa (Sorry) in otto lingue umane dopo aver tirato fuori il
maiale che è in te. Dopo averti mandato al collasso. Una scossa sulla pista
da ballo del mondo, con tanti saluti dall’ex ragazza di Bay City, Michigan
che un bel giorno arrivò nella Grande Mela covando grandi progetti. Una
lezione di stile che ancora adesso, dopo molte battaglie, ha il sapore di
una provocazione. 47 anni e non sentirli. Ecco di cosa parliamo quando
parliamo di pop.
(J.R.D.)
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