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DOGVILLE |
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Mai visto niente
di simile. Il signor Lars Von Trier vince la scommessa che ogni spettatore
deve aver lanciato, dopo il primo minuto di film, chiedendosi: ma che
davvero ha intenzione di fare tutto il film così? Ebbene sì, lo ha fatto.
Von Trier gira due ore e venti minuti all’interno di una cittadina
immaginaria che non esiste ma riusciamo a vedere, fa muovere i propri attori
all’interno di pareti che loro non possono toccare ma noi immaginare, priva
gli spettatori della fisicità delle cose per restituirgliene il senso. Per
la prima volta forse, le istanze predicate nel manifesto Dogma 95 (per
alcuni aspetti criticabile), trovano una ragione d’essere in quest’opera.
L’instabilità visiva delle immagini (dovute alla ripresa a mano) vanno ad
inserirsi in un impianto drammaturgico di chiara ispirazione Brechtiana,
l’eclettismo registico si fonde con l’astrazione scenografica e abbraccia
indissolubilmente lo straniamento cercato e voluto da Lars von Trier.
Sui contenuti come al solito sarà polemica. Nonostante l’assenza di porte Von Trier non ne lascia aperta alcuna, le chiude tutte, non concede spazio alle interpretazioni e chi vede non può fare altro che continuare a vedere, ed ascoltare il buon (o) cattivo "Dio" che narra la sua parabola. Lo hanno accusato di presunzione o prepotenza intellettuale, la verità è che il signore suddetto è troppo geniale per non concedergli il beneficio del dubbio, è bene non peccare di presunzione critica e prenderlo sul serio, con riserva magari, ma anche con il rispetto che merita un autore che ha il coraggio di provocare. Aldilà dell’intelaiatura cristologica con cui L’autore edifica i suoi film, in questo caso specifico, e più che in Dancer in the dark, a far discutere saranno le risultanze politiche e sociali dell’intero discorso artistico. Come in molti sanno Lars Von Trier, data la sua paura di volare, non è mai stato negli Stati Uniti e qualcuno naturalmente ha fatto notare il vizio di fondo di un regista che si permette di criticare una società che non ha mai avuto il piacere di visitare. L’approccio è sbagliato, la domanda non è: ma come si permette? La domanda è: perché Von Trier pensa di poter narrare sugli Stati Uniti senza averli conosciuti di persona? Perché? Perché L’AMERICA non è solamente una nazione fatta di carne, fango ed acqua, ma anche, o soprattutto, un luogo mentale, un padre educatore, un immaginario collettivo che ha determinato e determinerà parte delle coscienze di mezzo mondo. Gli Stati Uniti sono anche nella strada danese in cui Von Trier vive. Volete forse privare un uomo di disquisire sul proprio vicino? Dogville, così piccola eppure universale, così lontana e così vicina.
Dogville,
Una cittadina da cui non si può uscire salvo tornare indietro, salvo lavarsi i panni sporchi. Davide Catallo |
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