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Regia:
Takeshi Kitano |
Interpreti:
Miho Kanno,
Hidetochi
Nishijima,
Iatsuya Mihashi,
Chieko Matsubara,
Kyoko Fukada
, Tsutomu Takeshige,
Norihiro Isoda
|
Sceneggiatura:
Takeshi Kitano |
Fotografia:
Katsumi Yanagijima |
Montaggio:
Takeshi Kitano |
Scenografia:
Norihiro Isoda |
Costumi:
Yohji Yamamoto |
Musiche:
Joe Hisaishi |
Produzione:
Bandai Visual, Tokyo FM, TV Tokyo e Office Kitano |
Distribuzione:
Mikado |
Nazione:
Giappone Anno: 2002 |
Sito ufficiale:
http://office-kitano.co.jp/dolls/ |
"Il freddo è acuminato
Bacio un fiore di prugno
In sogno"
(Sôseki)
Tre
versi e diciassette sillabe racchiudono il candore dell’Haiku.
Tre
storie che compongono un film fatto di Haiku.
Dolls
ultimo lavoro di Takeshi Kitano non è un semplice avvicendarsi di eventi, ma
una poesia d’amore fatta di immagini suggestive, di simbolismi profondi e di
denuncia sociale. Un linguaggio di figure umane che comunicano direttamente
con il nostro io più profondo, oscillando tra una realtà frustrante e
costrittiva e la ricerca interiore della propria dimensione umana che
conduce inevitabilmente alla fine dell’esistenza.
L’immagine emblematica diviene una pallina di plastica rosa, il proprio io,
sospesa a mezz’aria tra la luna e la protagonista, la coscienza dei
personaggi non ancora delineata in equilibrio tra due mondi antico e
moderno, materiale ed onirico, in un’ evoluzione che li condurrà alla morte
e alla fine del sogno. La pallina viene schiacciata da un’auto, come la
farfalla che osserva Sawako, la tragedia raggiunge la perfezione della
bellezza, l’immacolatezza si manifesta al termine di ogni cosa, poiché
combacia col principio. La libertà è nella scelta di morire, non potendo
decidere quando e dove nascere. Questa è la linea di pensiero che unisce
ogni personaggio: ognuno ha perduto qualcosa, ognuno cerca qualcosa.
Kitano
ci mostra la cultura di un mondo che può sembrarci lontano, ma in realtà
parla dell’universale, dell’uomo e della sua esistenza. Si confronta con la
tradizione giapponese e porta in scena le storie del teatro
Bunraku,
all’inizio in maniera poco dichiarata per giungere al metateatro tra gli
avvenimenti del Meido No Hikayaku, un classico di
Chikamatsu, e la
pellicola. Un parallelismo che sottolinea ulteriormente il tema di
equilibrio tra universi differenti, ma che apre la strada anche alla forma
di doppio suicidio d’amore ‘shinju’ capace di rendere eterno il legame tra
due amanti.
Il
richiamo alla tradizione non vieta al film di denunciare la situazione
sociale del Giappone presente attraverso il vissuto dei personaggi. La prima
storia si apre con un matrimonio, la sposa non indossa il tradizionale
kimono, ma ha un abito bianco e la cerimonia si celebra in una chiesa
cattolica, la scena richiama le scelte religiose del popolo nipponico, che
nasce scintoista, si sposa cattolico e muore buddista. Sempre nel primo
episodio abbiamo Matsumoto, obbligato dai genitori a sposare la figlia del
suo capo e ad abbandonare Sawako. Nel secondo è presente Hiro, un capo
Yakuza ovvero l’attuale incarnazione del Feudatario, mentre nel terzo
conosciamo il fenomeno delle Idols, adolescenti che raggiungono la fama.
L’amore diviene il punto di partenza per mutare la propria vita, ma è
contaminato dal formalismo e di conseguenza non raggiunge la sua totale
perfezione; esso è solo l’inizio del viaggio e non l’arrivo. Prendendo il
personaggio di Nakui, l’ammiratore della idol Haruna si può facilmente
comprendere tale concetto. La passione di quest’uomo è tormentata, non può
avere la donna che ama perché lei è una cantante molto popolare e le uniche
occasioni che ha di vederla sono gli incontri con i fans. Quando la ragazza
si ritira prematuramente dalle scene, Nakui come Edipo si rifiuta di
guardare la realtà e si cava gli occhi. Haruna sfigurata da un incidente
non vuole farsi vedere da nessuno, ma accetta di incontrare il suo
ammiratore più fedele perché cieco. Solo quando l’amore formale viene
finalmente a macchiarsi a corrompersi diviene reale e nel momento stesso in
cui esso acquisisce tale qualità raggiunge la pienezza della perfezione,
come il campo di rose in fiore che toccano l’apice di bellezza pochi attimi
prima di morire.
Tutto l’ambiente del film è un susseguirsi di estremo candore, il rosso
degli aceri, i fiori di ciliegio, il luccichio del mare e la neve. Ogni
ambiente è lo scenario ideale del dramma che si consuma. Kitano ha
dichiarato di aver adattato la scelta delle location ai costumi di Yamamoto
che riproducono l’ immagine surreale del teatro bunraku trasformando
lentamente i due protagonisti in marionette. Tutti gli attori sono pupazzi
guidati dal saggio Kitano e si muovono lungo un percorso di cui lui è
artefice, un burattinaio stranamente nascosto dietro la macchina da presa.
Diversamente da quanto siamo abituati a vedere in
Dolls la parte
onirica si muove in concomitanza con quella reale, ma più si prosegue più
diventa difficile distinguerle. Sawako rinuncia alla ragione tramite un
tentativo di suicidio, mentre Matsumoto abbandona la propria condizione
sociale per seguire un ideale. Il loro vagabondare è un cercare la felicità,
evidenziato
dagli abiti che si confondono con l’ambiente e in particolare nel momento in
cui i due abbandonano l’autostrada per entrare in un bosco di ciliegi in
fiore, ribellandosi al destino per la libertà. L’avvenimento sottolinea la
trasformazione dei due che diventano burattini di carne e quindi sogno.
L’inizio della primavera è l’inizio di una nuova vita, di una nuova realtà.
La corda rossa con cui si legano è un classico nella mitologia giapponese ed
è lo strumento di congiunzione tra due esseri, mondi e universi. La
sensibilità di un grande autore, un Giappone da mitologia fanno di questo
film un capolavoro del cinema, un gioiello senza tempo che sarà difficile
non amare.
Massimo Macchia |