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FELLINI: SONO UN GRAN BUGIARDO |
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Se Fellini fosse ancora qui, non avrebbe certo smesso di posticipare dopo infinite prove (di set, di attori, costumi, luci) il primo, vero ciak del Viaggio di G. Mastorna, grande miraggio e scatola nera del suo universo, progetto interminabile come il Napoleon di Kubrick, il Porno-teo-kolossal di Pasolini, A boccaperta di Carmelo Bene. Film da non fare, asteroidi esplosi in miliardi di schegge conficcate nella carne di altre opere realizzate nel frattempo. Con candore e poca ironia, già assistendo alla propria assenza riflessa nel vero/falso della macchina da presa, Fellini dichiara: "I miei film nascono perché firmo un contratto, prendo un anticipo, non lo voglio restituire e sono costretto a fare il film". Un modo disarmante per dire che Mastorna, più di ogni altra pellicola consegnata alla distribuzione, è sempre stato fuori dalla logica del contratto da onorare con i Grimaldi, i De Laurentiis, i Rizzoli (a loro volta obbligati ad accettare la firma del regista senza aver letto uno straccio di soggetto). Prima della macchina produttiva c’è il gioco, il sogno fanciullesco e mistagogo delle cose che si smontano e rimontano fuori dal commercio di cinema, dai costi che s’innalzano, dalla troupe in attesa che il genio impartisca i tre ordini di rito: "silenzio, motore, azione!". Girare senza pellicola (una volta accadde a Pasolini che, infastidito, rispose: "Non fa niente, andiamo avanti comunque") significa votarsi a una febbre, a un’ attesa intima e ipertrofica. Diversa (perché più vitale) da quella imposta dal lugubre gracchiare dei contabili del cinema ("Il Maestro è troppo vecchio per stare su un set. Le assicurazioni non coprono. I suoi film non incassano più", destino che oggi tocca ad Antonioni). Attendere l’impossibile, procrastinare: "Finito un film, Mastorna tornava a ripresentarsi dicendo: «Adesso tocca a me»". Dieci ore di conversazione sono la base sulla quale il regista canadese Damian Pettigrew ha costruito un interessante ritratto di Federico Fellini poco prima della sua scomparsa. "La più lunga e dettagliata conversazione mai registrata sulla mia visione personale", secondo il diretto interessato. Ecco allora i corpi, i luoghi dell’immaginario felliniano (Rimini, ricostruita in studio, più vera della città "topograficamente accertabile"), le testimonianze di Italo Calvino, degli amici e collaboratori Tullio Pinelli, Titta Benzi, Rinaldo Geleng e poi Rotunno, Benigni, il produttore Daniel Toscan du Plantier che, insieme all’inglese Terence Stamp, scelto per il ruolo di Toby Dammitt nell’omonimo episodio di Tre passi nel delirio (1968), regala al documentario alcuni momenti esilaranti. E c’è Donald Sutherland, protagonista dell’horror in costume Casanova, così simile al Malcom McDowell che in Stanley and us testimonia le angherie subìte sul set di Arancia meccanica quando chiama Fellini "Caporale, tartaro, dittatore, demone", poi lo paragona a Welles perché Welles creava una bugia e quando tutti ci credevano, trovava questa cosa insopportabile. La frase "Sono un gran bugiardo", ripresa da Pettigrew per il titolo, riporta a F for fake e particolarmente al racconto di Orson Welles dedicato al vecchio falsario che persuase Picasso a non denunciarlo: "Confessare che cosa? Che ho dipinto dei capolavori? Sarebbero strappati dai muri. Che cosa resterebbe di me? Prima di morire ho bisogno di credere che l’arte sia una realtà". Un’energia intensa attraversa i 105 minuti del documentario e investe tutto il cinema che dopo Fellini non c’è stato, non c’è, non ci sarà perché c’è penuria di grandi bugiardi, di bambini lasciati liberi di accendere/spegnere le luci di un set (c’è Lynch...e poi?). "Esprimere un sogno, una fantasia, è un compito di alta matematica", dice l’assente. Oppure un gioco da bambini ininterrotto come il Mastorna, fuori dal tempo e (soprattutto) dall’incongruo presente prefigurato in E la nave va.
Nino G. D’Attis |
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