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Titolo originale:
Fellini: Je Suis Un Grand Menteur |
Regia: Damian
Pettigrew |
Interpreti:
Federico Fellini, Italo Calvino, Donald Sutherland, Terence Stamp,
Roberto Benigni, Giuseppe Rotunno, Tullio Pinelli, Luigi ‘Titta’ Benzi,
Rinaldo Geleng, Daniel Toscan du Plantier |
Soggetto:
Damian Pettigrew e Olivier Gal |
Fotografia: Paco
Wiser |
Musica: Nino Rota,
Luis Bacalov |
Montaggio:
Florence Ricard |
Suono: Andrea
Moser, Manuel De Sousa, Jean-Paul Loublier |
Produzione:
Portrait & Cie/Olivier Gal, ARTE France, Tele+, DreamFilm, Asylum
Pictures |
Paese: Francia,
Italia, Scozia Anno: 2002 |
Durata: 105’ |
Distribuzione:
Mikado |
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Se Fellini fosse
ancora qui, non avrebbe certo smesso di posticipare dopo infinite prove (di
set, di attori, costumi, luci) il primo, vero ciak del Viaggio di G.
Mastorna, grande miraggio e scatola nera del suo universo, progetto
interminabile come il Napoleon di Kubrick,
il Porno-teo-kolossal di Pasolini, A
boccaperta di Carmelo
Bene. Film da non fare, asteroidi esplosi in
miliardi di schegge conficcate nella carne di altre opere realizzate nel
frattempo. Con candore e poca ironia, già assistendo alla propria assenza
riflessa nel vero/falso della macchina da presa, Fellini dichiara: "I miei
film nascono
perché
firmo un contratto, prendo un anticipo, non lo voglio restituire e sono
costretto a fare il film". Un modo disarmante per dire che Mastorna,
più di ogni altra pellicola consegnata alla distribuzione, è sempre
stato fuori dalla logica del contratto da onorare con i Grimaldi, i De
Laurentiis, i Rizzoli (a loro volta obbligati ad accettare la firma del
regista senza aver letto uno straccio di soggetto).
Prima della
macchina produttiva c’è il gioco, il sogno fanciullesco e mistagogo delle
cose che si smontano e rimontano fuori dal commercio di cinema, dai costi
che s’innalzano, dalla troupe in attesa che il genio impartisca i tre ordini
di rito: "silenzio, motore, azione!". Girare senza pellicola (una volta
accadde a Pasolini che, infastidito,
rispose:
"Non fa niente, andiamo avanti comunque") significa votarsi a una febbre, a
un’ attesa intima e ipertrofica. Diversa (perché più vitale) da
quella imposta dal lugubre gracchiare dei contabili del cinema ("Il Maestro
è troppo vecchio per stare su un set. Le assicurazioni non coprono. I suoi
film non incassano più", destino che oggi tocca ad
Antonioni). Attendere l’impossibile, procrastinare: "Finito un film,
Mastorna tornava a ripresentarsi
dicendo: «Adesso tocca a me»".
Dieci ore di
conversazione sono la base sulla quale il regista canadese Damian Pettigrew
ha costruito un interessante ritratto di Federico
Fellini poco prima della sua scomparsa. "La più lunga e dettagliata
conversazione mai registrata sulla mia visione personale", secondo il
diretto interessato. Ecco allora i corpi, i luoghi dell’immaginario
felliniano (Rimini, ricostruita in studio, più vera della città
"topograficamente accertabile"), le testimonianze di Italo Calvino, degli
amici e collaboratori Tullio Pinelli, Titta Benzi, Rinaldo Geleng e poi
Rotunno, Benigni, il produttore Daniel Toscan du Plantier che, insieme
all’inglese Terence Stamp, scelto per il ruolo di
Toby
Dammitt nell’omonimo episodio di Tre passi nel delirio (1968), regala
al documentario alcuni momenti esilaranti. E c’è
Donald Sutherland, protagonista dell’horror in costume Casanova,
così simile al Malcom McDowell che in Stanley and us testimonia le
angherie subìte sul set di Arancia meccanica quando chiama Fellini
"Caporale, tartaro, dittatore, demone", poi lo paragona a
Welles perché Welles creava una bugia e quando
tutti ci credevano, trovava questa cosa insopportabile. La frase "Sono un
gran bugiardo", ripresa da Pettigrew per il titolo, riporta a F for fake
e particolarmente al racconto di Orson Welles dedicato al vecchio falsario
che persuase Picasso a non denunciarlo: "Confessare che cosa? Che ho dipinto
dei capolavori? Sarebbero strappati dai muri. Che cosa resterebbe di me?
Prima di morire ho bisogno di credere che l’arte sia una realtà".
Un’energia
intensa attraversa i 105
minuti
del documentario e investe tutto il cinema che dopo Fellini non c’è stato,
non c’è, non ci sarà perché c’è penuria di grandi bugiardi, di bambini
lasciati liberi di accendere/spegnere le luci di un set (c’è Lynch...e
poi?). "Esprimere un sogno, una fantasia, è un compito di alta matematica",
dice l’assente. Oppure un gioco da bambini ininterrotto come il Mastorna,
fuori dal tempo e (soprattutto) dall’incongruo presente prefigurato in E
la nave va.
Nino G. D’Attis |