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FORTEZZA BASTIANI |
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Esce un nuovo film italiano, di quelli a budget limitato, da articolo 8. Prima di entrare in sala, penso all’avventura e alla fatica di questo progetto e di chi ci ha creduto fino in fondo, ha sofferto e alla fine c’è riuscito. Quattro anni fa vince il premio Solinas, e poi chissà quante facce, quante discussioni, speranze, e infine l’approdo, un produttore, un distributore e tante altre cose. E io, per un attimo, provo un sentimento di pacificazione con tutto il mondo (quello delle storie che vogliono essere raccontate, della produzione, del cinema…insomma tutto), sono contento che quelle speranze sono adesso metri di pellicola, davanti a noi per il primo passaggio. Fortezza Bastiani è il rifugio domestico, straripante di complicità e divertimento, di un gruppo di universitari bolognesi alle prese con gli ultimi esami da sostenere, e l’ansia e l’indecisione per le scelte importanti che verranno di lì a poco. È l’opera prima di due autori bolognesi (Michele Millara e Alessandro Rossi) cresciuti nel teatro underground, e che ora si giocano in casa questa prima volta sul grande schermo. Bologna (portici arancione e cielo a squarci), la sua antica università (mense affollate e professori inesistenti), e la casa, un appartamento in affitto nel centro storico della città (manuali da leggere, grandi feste e grande prossimità umana), sono il pane quotidiano di quella fauna umana, un po’ laureando un po’ "Oddio! E adesso?", sulla quale viene puntata da subito la macchina da presa. Ma è una storia che si disperde nei rivoli stretti e confusi di tanti caratteri e personaggi, troppo impegnati nel loro ruolo, troppo concentrati a mostrare la caratteristica principale del loro personaggio (Napoleon l’arrivista raccomandato, Queen Mary la generosa donna di casa, Rubin l’intransigente e disilluso aspirante ricercatore) per conquistarsi un’esistenza propria, una dimensione realmente vissuta. Si ha l’impressione di sentirsi raccontare una storia che non è tenuta per mano, per bocca o per macchina da chi te la sta raccontando. Manca quella forza, quella coerenza e quella "strategia" che fa di una commedia una cosa "seria", una cosa che ti fa pensare, ti smuove il cuore e il culo, mentre ti accompagna ridendo. Così, per esempio, se Benna, è lo studente di giurisprudenza plurifuoricorso, vagamente rivoluzionario e decisamente perditempo, che colleziona orologi quasi come contrappunto paradossale del suo non saper capitalizzare il tempo e le occasioni, nei pochi momenti in cui lo si vede alle prese con i suoi orologi, le scene non sono convincenti, non hanno unità, e gli orologi appaiono come un’aggiunta ingiustificata, un elemento di scena estraneo all’azione e al contesto, così che l’attore non porta dentro di sé questo paradosso del tempo sprecato e però gelosamente segnato. In generale un po’ tutta la dinamica della vita universitaria che il film ci mostra - il padrone di casa incazzato, i resti alcolici dell’ultima festa sparsi in giro, le montagne di piatti accumulate, i mozziconi di canne nei portacenere - è raccontata in modo così arrendevolmente descrittivo, e con una messa in scena ingenua e poco curata, che impediscono alla storia di conquistarsi uno spazio originale, un piccolo spessore proprio. La macchina da presa che indugia compiaciuta fra i dettagli della sfattanza, ricorda fin troppo da vicino quella iconografia generazionale che nel recentissimo passato abbiamo visto in Santa Maradona, (parte di) Ovosodo e le pubblicità del Nescafè. E non si tratta del "l’hanno già fatto! quindi tu t’attacchi, sei arrivato tardi, mi dispiace"; ma è proprio la mancanza di immaginazione, di una visione realmente curiosa (creativa?), a impedirti un territorio che a quel punto, sì, appare esausto e già calpestato. Invece ciò che il film riesce a mostrare in maniera più convincente, è il giudizio di inadeguatezza culturale e umana che i protagonisti hanno ormai affibbiato all’università, quella sensazione di lotta inutile e di campo di battaglia bruciato. Un po’ tutti sono ormai troppo delusi e stanchi dagli esami, dai prof, dal tempo che scandisce malinconico situazioni sempre uguali, e cercano altrove gli stimoli e la possibilità di un riscatto. Ma quando arriva il momento delle scelte finali (Napoleon e Queen Mary negli States, Pedro a Barcellona, e tutti gl’altri che rimangono "a parlare di cose provinciali, nella provincia dell’impero") il film non riesce a far passare quell’emozione di scelta destinale, di rottura, di svolta, e tutto sembra arrivare per sfinitezza, per l’autocompimento di un finale. Non aiuta a ben figurare un cast composto prevalentemente da attori giovani, una fotografia sgranata e senza carattere, che se "tiene" negli interni cupi e da illuminazione posticcia di una casa da studenti, quando poi è mantenuta per tutto il film finisce per sfaldarsi, perdere di compattezza e precisione. Rimane la sensazione, di una storia rimasta (scritta) nelle intenzioni degli autori, soffocata nell’intreccio troppo studiato "a tavolino" dei personaggi, ma che non è riuscita a diventare emozione coinvolgente sullo schermo. Se vi va di vedere cosa facevano i vostri figli mentre gli anni fuori corso si allungavano insieme alle inquietudini, o se invece in quella inquietudine e in quella impasse ci siete ancora, e vi serve una dose di complicità da branco, andate a vederlo.
Andrea Scaccia |
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