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GINOSTRA |
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Asia Argento, suora in rosso porpora, viene giù da un pendìo, portando a valle detriti di terra lavica. Terra, acqua, fiamme. Ancora Asia, sedotta dal magma del vulcano, come davanti a uno specchio di fuoco, o a una porta dell’inferno. E il mare, la pioggia, le due notti di tempesta che aprono e chiudono il film, rubati all’horror che fu, ai capolavori della tensione di un cinema da artigiani visto in un’epoca lontana (pre-grossi budget, pre-grandi profitti, naturalmente). I colori e la fotografia di Ginostra sono straordinari. Basta questo per arrendersi ed entrare già sonnambuli all’interno di una pellicola che vanta una tavolozza di colori violenti o morbidi, uniti o contrastati, ma sempre funzionali. Di fronte alla sua rappresentazione, il congegno del plot è irrilevante. Si può fare un film con dei vistosi buchi nella sceneggiatura solo a patto di avere un grande senso della visione, una padronanza non comune di ogni elemento finalizzato allo smarrimento dello spettatore. Questa è l’unica, implicita condizione per farla franca: entrare ad esempio nei sacri territori di Michelangelo Antonioni con il timor reverenziale ridotto al minimo, privilegiare l’unitarietà del rapporto inquadratura/durata, minare tutto ciò che è in campo e far brillare la bomba. Se la visione è grande, il testo è poco più che superfluo. I dialoghi sono quelli inconsistenti, sfilacciati dei sogni: trama onirica, non logica, non verosimile, tra facce del cinema di Argento (la figlia Asia, ma anche Veronica Lazar e Stefano Dionisi), schegge di altri set (Paris, Texas e Twin Peaks per Harry Dean Stanton; Il Cattivo tenente e Lo Sguardo di Ulisse per Harvey Keitel), personaggi che sorgono come spettri e fissano la macchina da presa con una tensione irreale. Ginostra, secondo lungometraggio del giovane regista francese Manuel Pradal, dopo Marie from the bay of angels, è passato attraverso il travaglio tipico delle opere che rivendicano una forma di libertà dai condizionamenti produttivi. Indenne sul piano della compiutezza (“Mi sono battuto per avere l’ultima parola, il director’s cut” sostiene Pradal), gravato da qualche dubbio sul suo destino nelle sale (al Roma Film Festival è stato proiettato in inglese, con sottotitoli francesi e non è dato sapere quando e se uscirà sul territorio italiano), è costato 32 miliardi di vecchie lire con una lavorazione protrattasi dal dicembre 2000 al luglio 2001 (più un anno di montaggio). Thriller lento e narcotico dal finale teso, tutto in crescendo. Storia di vendette e di figli marchiati a fuoco dalle scelte dei padri, film d’attori, come si dice di solito in questi casi, pensando ai corpi performatici che occuperanno lo spazio più che ai nomi che tirano al botteghino. “La prima idea” dice Pradal, “era quella di fare un thriller urbano ambientato a Napoli ma ho scoperto che Napoli è una città che non avrei potuto dominare, così siamo passati alle isole.” Sicilia, oggi. L’agente FBI Matt Benson (Keitel), arriva in Italia con la sua famiglia per proteggere Ettore, unico superstite di una strage mafiosa. Ettore ha undici anni ed è il figlio di un pentito che con le sue rivelazioni ha messo in crisi il clan Manzella. L’avvio è questo ma, come conferma lo stesso regista, “Il mio non è un film di mafia.” Abbiamo davvero un oggetto misterioso, finalmente non identificato “Un film senza identità: non è francese, non è italiano, non è americano”, scritto e diretto da un autore che ha il coraggio di Jean-Jacques Beineix o di un Sergio Leone (per le durate dilatate, ma non solo). Pradal non ha dogmi, non è prigioniero di teorie. L’unica cosa che ci fa sapere è che sta cercando nuove strade per dire ‘epica’ all’interno del desolante cinemercato.
(N.G.D’A.) |
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