Tutti gli anni il settimanale
americano Time dedica una copertina di dicembre a quello che ritiene sia
stato, in bene o in male, il personaggio dell’anno. Nel 1938 fu Adolf Hitler
a conquistarsi quest’onore. Nel 2001, con l’America in piena terapia
patriottistica dopo gli attacchi dell’11 settembre, fu la foto di Rudolph
Giuliani, sindaco uscente di New York a campeggiare sopra la scritta Man Of
The Year. In molti furono totalmente d’accordo con quella scelta. Altri la
ritennero una scontata soluzione di circostanza: un personaggio, dal passato
molto criticato e discusso, dopo 1000 vicissitudini personali, e alla fine
del suo secondo mandato, diventa lo strumento prediletto dalla propaganda
politica; se non può più occupare l’ufficio del Campidoglio almeno occuperà
un posto nel vostro cuore. É facile creare un eroe per chi ha stabilito le
tappe della mitizzazione. Impossibile invece proporre un cambio di direzione
e, con una sferzata di coraggio, ritentare l’impresa del ’38 che inchiodò in
prima pagina il vero protagonista di quell’anno. Dietro alle facce del Time
c’è sempre qualcosa di più: un ideale, un piano, qualcosa da appoggiare, una
filosofia da abbracciare o qualcosa da mostrare per averne paura e starne
semplicemente alla larga. Ma l’America non è più quella della seconda guerra
mondiale e degli eroi che salvarono il mondo dal giogo nazi-fascista.
Stavolta gli Usa combattono a casa loro contro un nemico che per troppo
tempo hanno voluto sottovalutare. Così la faccia di Giuliani vince in
partenza su quella di un bin Laden derubato vincitore. Era il momento giusto
per piantare i piedi ed ammettere debolezze e mancanze ma i conservatori del
Time hanno detto no. Era il momento giusto per rifocalizzare il senso del
Man of the Year e trarne qualcosa dopo anni d’insignificanti istantanee di
miliardari. Forse è stato solo il tentativo di qualcuno per evitare che a
una figura di primo piano fosse relegato ancora più potere, magari solo
psicologico, di quanto non ne possieda già. Peccato. Poteva essere
un’occasione per analizzare l’argomento Potere e tutte le sue sfaccettature
(perché lo si cerca, cosa si è disposti a fare per averlo, dove la sua sete
ci può condurre) e magari capire dove evitare di sbagliare in futuro, ma il
paese che dal 12 settembre cerca inutilmente di avere la testa dello sceicco
del terrore forse è troppo imbarazzato dagli esiti della sua ‘Giustizia
Infinita ’ per lanciare un dibattito autocritico dalla prima pagina patinata
di un settimanale. Ma se la cosiddetta stampa impegnata si tira indietro ci
pensa il cinema a porci di fronte a certe questioni. Il kolossal a cui da 7
anni Peter Jackson lavora è la somma di tutti gli elementi che ultimamente
sono così familiari agli statunitensi: la brama di potere di un uomo che
spende la sua esistenza cercando di sottomettere tutti i popoli. Il
fanatismo che aumenta e porta alla guerra. Il potere che sembra agire con
una sua coscienza e accrescersi ogni volta che tenta un animo. Personaggi
virtuosi che si lasciano corrompere per meri scopi personali. Un manipolo di
malvagi servitori che agiscono nell’ombra e pacifiche esistenze sconquassate
dagli eventi e portate da quest’ultimi a schierarsi in prima linea.
Così la vicenda che fu scritta
da R.R. Tolkien tra il 1954 e il 1955 dopo essere stata classificata come
metafora del regime nazista, tanto che c’è chi afferma che l’autore battezzò
il paese di provenienza del malvagio Sauron, Mordor appositamente per
richiamare il termine tedesco che significa omicidio, torna oggi a
dimostrare la sua universalità. E anche se siamo solo all’inizio di una
trilogia, Jackson è abile a fissare caratteri e peculiarità dei personaggi
senza però svelare troppo. Proprio come Lucas nel primo capitolo di Guerre
Stellari, il regista neozelandese focalizza l’attenzione dello spettatore su
Frodo Baggins, al secolo Elija Wood, lasciando trapelare più su lui che su
tutti gli altri. In questo modo entriamo piano, piano nella vicenda e poi,
storditi quanto l’hobbit, prendiamo consapevolezza della missione che suo
malgrado è destinato a compiere. Un eroe improbabile, una creatura non
aitante, un giovane inesperto che non si tira indietro davanti alle
difficoltà e che si arma di coraggio quando capisce di essere l’unico in
grado di gestire l’anello degli anelli. Ed è dal personaggio di Frodo che ci
aspettiamo maggiori soddisfazioni in futuro, considerato che l’inizio
promette bene. Come in tutte le saghe epiche che si rispettino il giovane
protagonista dovrà affrontare molte prove. Peter Jackson ci mostra proprio
questo suo cammino, quest’addestramento, non eccedendo mai nell’uso degli
effetti visivi speciali, che vista l’ambientazione avrebbero dato allo
spettatore l’impressione di essere finito nella casa degli orrori di un Luna
Park. Dietro agli scontri e i duelli con orchi, cavalieri del male e maghi
si celano infatti i rischi che l’hobbit Frodo Baggings dovrà affrontare
nella vita. Come il giovane Luke Skywalker prima di diventare Jedi, Frodo
dovrà superare ogni genere di prova che ne plasmerà la personalità. Nella
Compagnia dell’Anello c’è la sorpresa di un giovane che si affaccia all’età
adulta e si scontra con il potere, c’è il suo tentativo di fuga dal potere
stesso e infine c’è la realizzazione di dover intraprendere un lungo e
difficile viaggio dentro se stesso che gli consentirà di acquisire quei
poteri necessari a sconfiggere il male. Tutt’intorno a lui un corollario di
figure mitiche, care all’immaginario collettivo di qualunque generazione,
che avranno modo di dimostrare il loro valore e la loro lealtà, ma anche la
loro debolezza. Sì perché di questo si parla sopra ogni altra cosa di
debolezza nei confronti di ciò che più ci tenta: il potere che fu il motivo
per il quale il malvagio Sauron creò l’anello, ed è ora la ragione per cui
più personaggi si mobilitano creando una variegata compagnia che dovrà
impedire al monile di riunirsi al suo creatore. Compito non facile se
pensiamo che il potere anche in questo caso ci metterà lo zampino e tenterà
di fuorviare tutti gli animi, anche i più virtuosi per arrivare al suo scopo
che al di là della metafora del ricongiungimento tra Sauron e l’anello è
quello di dimostrare come tutte le coscienze siano fallibili di fronte alla
possibilità di possederlo. Ma c’è anche dell’altro dietro al primo capitolo
della trilogia che vuole soffiare a Star Wars ogni primato raggiunto: una
cura maniacale dei personaggi e degli ambienti tale da mettere d’accordo
tutti fan del libro e profani di Tolkien. Non un eccesso non una sbavatura
nella regia di Jackson. Un solo rimpianto: troppo breve l’incontro romantico
tra Arwen e Aragon, Liv Tayler e Viggo Mortensen, gli immancabili innamorati
della saga, ma questo è solo l’inizio della storia. |
IL SIGNORE DEGLI ANELLI: LA COMPAGNIA
DELL' ANELLO di Valentina Soluri
Prologo: il perfido Sauron crea 19 anelli
del potere, da distribuirsi in eque proporzioni tra gli elfi, gli uomini e i
nani, ma inganna tutti costoro forgiandone un ventesimo, più potente degli altri
e in grado di soggiogare e votare al desiderio sfrenato di potenza chiunque lo
possiede. Dopo lotte sanguinose il prezioso tesoro passa di mano in mano fino ad
arrivare al buon hobbit Bilbo che ignora le sue straordinarie capacità ma
affascinato lo tiene per sé e ne ricava in cambio una lunga e serena vita. E qui
inizia la storia vera e propria. Nella verde contea degli hobbit si festeggia il
compleanno di Bilbo, che già da tempo ha in programma un lungo ritiro spirituale
volto alla scrittura di un romanzo. Prima di partire, viene convinto dal buon
mago Gandalf a lasciare l'anello in custodia al giovane e ingenuo Frodo,
affinché il suo incredibile e malefico potere non abbia possibilità di
scatenarsi. Bilbo acconsente, ma Sauron, resuscitato, si mette alla ricerca
dell' anello medesimo dando la caccia a Frodo e ai tre amici hobbit che scappano
insieme a lui. Alla fine, approdati nel regno degli elfi, i quattro decidono di
recarsi al monte Fato, unico luogo dove l'anello può essere distrutto, insieme a
Gandalf, due umani, un elfo arciere e un nano: la compagnia dell' anello, al
gran completo, può lanciarsi verso l'unica missione in grado di salvare la terra
di Mezzo, ma il cammino presenta non poche insidie, e non tutti ne usciranno
vivi. Come andrà a finire, o meglio a continuare, lo sapremo solo nella seconda
puntata della trilogia, ''Le due torri" (gasp) nei cinema nel 2003. Così
finalmente la tanto annunciata trasposizione cinematografica del capolavoro di
Tolkien arriva sugli schermi , diretta dal registra neozelandese Peter Jackson
(che trasporta il set nella terra natale, e davvero non si poteva immaginare un
paesaggio più incantevole) e interpretata da attori almeno formalmente di tutto
rispetto, da Christopher Lee a Liv Tyler, da Cate Blanchett a Viggo Mortensen
(almeno formalmente, perché il protagonista Elija Wood fatica a mutare
espressione dall' inizio alla fine). E qui, per la sottoscritta che scrive, si
apre un dilemma: come mai questa gloriosa epopea, che ha entusiasmato mezzo
mondo e ha ricevuto consensi quasi unanimi, mi è sembrata così incredibilmente
noiosa? Per intenderci: non sono un'amante dell'epica e forse questo è il grosso
problema, ma a fronte di una prima parte del film davvero spettacolare (il
meraviglioso mondo degli hobbit e l'inizio della caccia al povero Frodo), ho
trovato le successive due ore una pura e semplice galleria di effettoni
speciali, belli quanto si vuole ma un po' ripetitivi: che gli eroi combattano
contro un mostro verde o un cavaliere blu, sempre della stessa sequenza si
tratta, e giù di spade, archi, frecce e chi più ne ha più ne metta. Ancora: è
inutile che ogni dieci minuti ci facciano credere (suspence!) che il
protagonista sta per morire: lo sappiamo tutti che è una trilogia (l'eroe, al
massimo, può morire nel terzo capitolo; Scream docet). Insomma, la sensazione
che mi ha dato (ma, ripeto, forse sono troppo malvagia) è che l'eccessiva
lunghezza serva unicamente a mettere in mostra l'enorme lavoro tecnico
necessario per la lavorazione del film; e, sarò all'antica, ma sono ancora
convinta che dovrebbero essere gli effetti speciali a essere a servizio della
trama e non viceversa, come purtroppo qui avviene. Non arriccino il naso i
puristi di Tolkien: so bene che il romanzo è lungo ed è già stato fin troppo
tagliato, ma il romanzo lo apri e chiudi quando vuoi, sei libero di
fantasticarci sopra e assecondare i tuoi ritmi; nel passaggio dalla letteratura
al cinema il lettore diventa spettatore, inchiodato senza via di fuga a una
poltrona su cui si chiede mestamente, mentre dopo due ore scorre la scritta fine
primo tempo, se il secondo durerà altrettanto. Certo, visivamente il film di
Jackson è un capolavoro: ma quanto erano belli gli anni '50, in cui per farne
dieci di grandi film bastava una coppia di sceneggiatori in gamba.
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