|
|||||||||||||||
L' UOMO DEL TRENO |
|||||||||||||||
Strani incontri in questo film. Patrice Leconte con una cifra stilistica formalmente più trattenuta. Due attori diversamente dotati e fondamentalmente diversi. Due personaggi agli antipodi, estremi ed in apparenza inconciliabili. L’uomo del treno (Johnny Hallyday), cupo, silente e cinicamente ripiegato sui suoi drammi, incontra il vecchio professore di francese in pensione (Jean Rochefort), logorroico, sarcastico e dolcemente ironico sui suoi drammi. Due personalità contrastanti che con fatica e scetticismo troveranno il conforto reciproco. Due vite alla vigilia di un destino. Un gioco di uomini, un gioco di specchi. L’uno è per l’altro il riflesso di una mancanza prima ancora che di un desiderio: il desiderio di voler vivere un’altra vita. Due modalità di pensiero, due cuori, due uomini che lentamente impareranno a stimarsi fino a diventare, sorretti da una sincera amicizia, un unico battito cardiaco. Un unico treno, un unico viaggio. Il tutto in una provincia francese volutamente asettica, quasi morta e dai colori sospesi perché non è di luoghi che si sta parlando ma di uomini. Colpisce l’intento artistico che sottostà ad ogni scelta formale, difatti, è dalla contrapposizione stridente di due opposti che ogni scelta tecnica viene presa. Claude Klotz fonde attraverso una calibratissima sceneggiatura due linguaggi lontani, troppo lontani tra loro. Jean-Marie Dreujou illumina con colori caldi (il professore) o freddi (il rapinatore) e unisce le due tonalità nel momento in cui i due protagonisti interagiscono. Pascal Esteve fonde note con rumori, Shubert con Ry Cooder, approdando ad un’accattivante colonna sonora che ha al suo interno la melodia di un incontro e la disarmonia di una lontananza. Insomma, affascina e cattura questa lacerazione esistenziale da cui il film si genera, Leconte ne è consapevole e gira con discrezione; rinuncia a qualsiasi slancio formale e rispettoso delle loro gesta e della loro evoluzione, lascia il campo a due attori che ci regalano un duetto tutto al maschile di rara intensità, salvo poi riprendersi la paternità autoriale del film nello splendido finale, dove attraverso un montaggio alternato di tre situazioni differenti, due reali l’altra onirica, Leconte riesce a filmare l’infilmabile: l’animo umano. Non un capolavoro, forse neanche troppo originale ma di certo è un’opera che trasuda sapienza cinematografica ad ogni fotogramma. Cinema di gran classe. Davide Catallo |
|||||||||||||||