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LA MALA EDUCACIÓN |
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Era più di due anni fa. Uscivamo dalla sala del Tibur a San Lorenzo nell’aprile del 2002, estasiati, commossi, sconquassati, distrutti e quant’altro. Avevamo appena visto Parla con lei, la storia dell’infermiere che amava la ragazza in coma, intrecciata con quella dello scrittore e della cantante dalle fattezze mascoline innamorata e sofferente per un eroinomane. Ancora prima, avevamo atteso sempre due anni per rivedere all’opera il genio che partorì quel capolavoro che ha rappresentato Tutto su mia madre (che poi, in questo paese si facciano delle interrogazioni parlamentari per non mandarlo in prima serata su Raidue, e si transiga su Incantesimo, è una questione che non intendiamo prendere in esame ora, ma meditate, gente, meditate..). Eh sì, perché noi siamo fans della svolta di Pedro Almodovar. Non che i primi, grotteschi ed assurdi film del regista spagnolo non riscuotano le nostre simpatie, anzi, ma troviamo che negli ultimi anni Almodovar sia stato l’unico artista capace di parlare d’amore in maniera non stucchevole, originale e fuori dagli schemi. Senza retorica da fiction di terza serie, l’occhio del regista castigliano ha indagato in mondi dove l’amore era “contronatura”, per dirla con il Cardinale Reitziger, lo stesso che nelle segrete della cupola più famosa al mondo avrà speso grandi elogi per la svolta del compagno Zapatero in materia di matrimoni e di famiglia. Zapatero come Almodovar! Questo era lo slogan che ci animava nell’andare a vedere La Mala education. Ci aspettavamo un ennesimo colpo inflitto dal cineasta dalla pettinatura un po’ così al rigurgito di puritanesimo di questi anni e di una certa istituzione. Storia leggermente autobiografia, avevamo letto. Almodovar è stato in collegio da piccolo, e denuncerà le malefatte di un certo tipo di clero. La domanda che albergava in noi era come lo avrebbe fatto: in maniera pesante, calcando la mano, scene raccapriccianti e fuori i benpensanti che si battono il petto dalla sala. Ci aspettavamo che il ciclone spagnolo si abbattesse come l’Enola-Gay (per chi non lo sapesse, è un missile, non un fantomatico personaggio omosessuale, ndr.) sull’Europa, quella mediterranea e quella “mittle” e crucca. Avevamo già sentito il rumoreggiare della Chiesa, lamentele ed accuse varie, e non vedevamo l’ora che il buon Pedro ci sconvolgesse. Eravamo pronti alla nostra esperienza estatica e catartica, quando la domenica, accendendo la televisione e carrellando qua e là tra Platinette ed uno splendido programma di Raitre sul precariato, ci imbattiamo nel nostro regista a Domenica in. Cosacosacosa??? Almodovar a Domenica in? Ora, noi vogliamo sforzarci di capire l’aspetto promozionale del film, ma il nostro non solo si faceva intervistare, cum bacio in bocca, dall’ormai matrona e vestale Mara Venier, ma in eccesso di kitch riusciva addirittura a cantare Cuore matto con Little Tony. Li-tt-le- To-ny! Almodovar e Little Tony, mah…E già i primi dubbi sulla forza e la veemenza del film cominciavano ad attanagliarci, ma vabbè, al cinema andremo e trionfanti e garruli torneremo, perché Almodovar è vivo e lotta insieme a noi! È finito il film. Un buon film, ben fatto, ben girato, bella storia. Un bel giallo, per carità. Un giallo?! Sissignori, avete capito bene, un giallo. Ci attendevamo l’Enola- Gay, abbiamo visto un noir-gay. E senza che ci taccino di razzismo o di discriminazione: un giallo che, per caso sembra, parte in un collegio di preti e finisce in un teatro di posa. Negli anni ’60 due bambini, Ignacio ed Enrique, si conoscono in collegio, scoprono se stessi e l’amore che li lega, il sesso artigianale e pudico tipico della preadolescenza. Padre Manolo farà di tutto per separarli, attaccato morbosamente com’è alle grazie del piccolo Ignacio. Dopo vent’anni Ignacio ricerca Enrique, nel frattempo diventato sceneggiatore, per proporgli di mettere in scena la loro storia in collegio. A questo punto il film, con la tecnica delle scatole cinesi, comincia la sua trasmigrazione verso il giallo. Scene di vita reale si sovrappongono a quelle del racconto, confondono noi poveri spettatori, che nel frattempo bramavamo il guizzo, il coup de theatre, il decollo e quant’altro del film. Tra colpi di scena più o meno efficaci, il film si conclude mestamente, non lasciandoci quasi nulla. Volevamo la denuncia, e alla fine Don Manolo, che si spreta pure nel frattempo (tanto per non attirarsi maggiormente gli strali della chiesa…) ci appare quasi da coccolare. Volevamo sentire parlare d’amore in certo modo, ma se si esclude che il mondo di cui si parla, quello omosessuale, non viene trattato molto approfonditamente dal cinema convenzionale, non è che il regista ci abbia insegnato molto. Volevamo, volevamo, fortissimamente volevamo. Ed in invece cosa abbiamo ottenuto per 7 euris-7? Un gran bel film paraculo. Paraculo sì. Almodovar carissimo, fatte servì, come si dice a Roma, hai perso una gran bella occasione. Di denunciare il marcio dei collegi, di parlare con sensibilità di mondi e di amori ai più sconosciuti. Ti sei fermato a parlare del tuo mondo: facce ambigue, sensualità controverse, semi-fanghiglia sociale e sentimentale. Ma che cosa ci hai donato di nuovo o di qualitativamente eccelso? Nulla di nulla, un discreto giallo e basta, e la connotazione demi-positiva dell’aggettivo te la diamo perché non sei un maestro del brivido, perché anche di gialli etero e omo, ne abbiamo visti ma di molto, ma molto migliori. E vabbè Pedro, sarà per un’altra volta. Magari promuovilo da Costanzo il film, la domenica, che ne sai, magari va un po’ meglio…E a noi che resta? Non disperiamo guys, c’è sempre Servillo che fa il ragioniere della mafia, una sposa turca in Germania, la ritrovata coppia Lo Cascio-Ceccarelli, Travolta alcolizzato, l’interessante cacciatore di teste Pasotti e chissà che tra una settimana non fischieremo anche noi il film, mooolto ben accolto a Venezia di Michele Placido. Non vi basta? Volete di più, dopo la delusione di Almodovar? Bhè, Emmanuelle Beart meretrice e mantide non dovrebbe essere proprio male, almeno per gli ormoni. Au revoir mesdames et messieurs, à la prochaine fois.
Simone Pollano |
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