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LOST IN LA MANCHA ovvero La mancata realizzazione di “DON QUIXOTE” visita la gallery |
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Don Chisciotte non è il cinema. Sfugge al meccanismo produttivo, ai piani di lavorazione, ai burocrati, ai ragionieri, ai funzionari delle assicurazioni cavalcando in sella a Ronzinante verso un luogo segreto e remoto, dove la macchina da presa non arriva. Inafferrabile minoranza di soggetto vanamente desiderato dal cinema, suddito di nessuno, variabile impazzita dalla nascita erroneamente scambiata per atto terminale del romanzo cavalleresco. Al più possiamo scorgerne l’ombra, sentire in lontananza il cozzare dei pezzi di latta che compongono la sua corazza da mentecatto sentimentale, tracciarne il profilo affilato sulle pagine di uno storyboard. E sognarlo, in coppia al fido Sancho Panza, pronto all’avventura per l’avventura dentro contrade irreali. Don Chisciotte è un paesaggio lunare di biancori e crateri, «Lontano, molto lontano, come se avesse toccato terra su un altro pianeta, come un uomo che si ritrova dopo la morte», per dirla con le parole di D.H. Lawrence nel Kangourou. L’amore inesauribile di Orson Welles non è bastato. Non è bastata la costanza: "Quasi finito, manca qualche raccordo", dichiarò il cineasta ai «Cahiers» nel 1965, dieci anni dopo averlo cominciato. Ma Welles non riuscì mai a completare l’opera che a un certo punto, per ammissione del diretto interessato, avrebbe potuto intitolarsi Quando terminerà Don Quixote? Stesso destino per The Man who killed Don Quixote, il progetto da 32 milioni di dollari di Terry Gilliam da realizzarsi con capitali europei e una troupe multilingue. Entusiasmo alle stelle: via da una Hollywood che appende l’aglio alle porte per tenere lontani i fantasisti, si combatte coi mulini a vento della vecchia Europa, sulla scia degli ultimi Lynch e De Palma. A Madrid, Keith Fulton e Louis Pepe (già autori del documentario The Hamster factor and other tales of twelve monkeys, rintracciabile nel Dvd Universal de L’Esercito delle 12 scimmie), hanno seguito tutte le fasi di un disastro in parte annunciato: dalla pre-produzione al brusco risveglio di Gilliam dopo la chiusura del set (sei giorni di lavorazione in totale) e la perdita dei diritti del film oggi di proprietà delle compagnie assicurative. Colpa di una tempesta che sfascia il set, delle mille difficoltà logistiche, dei guai alla prostata di Jean Rochefort. Don Chisciotte non c’è, rifiuta di congiungersi alla fabbrica di divinità di massa fino a smorzare la fiducia dei produttori, dei sessanta investitori associati. Non serve a niente evocarlo, dargli luce artificiale e un copione, una truccatrice personale, i meravigliosi costumi ideati da Gabriella Pescucci. Elude la celluloide, prediligendo la rischiosa avvenenza di un destino insensato. Lost in La Mancha è un film attraversato da passioni che appaiono mimate e invece sono vere. Dopo l’infatuazione, l’abbaglio, i lunghi corteggiamenti a Rochefort, a Johnny Depp, alla stronzissima Vanessa Paradis che si concede per una prova costumi e nulla più, si consuma il tormento di un regista crudelmente afflitto dalla realtà dei fatti che non sono parte della sua visione e costringono alla misura, all’ammanettamento delle idee, poi all’aborto coatto. "Questo è il trailer", dice un Gilliam fiducioso mentre guarda insieme ai suoi collaboratori i provini dei ‘giganti’. Ha una bella luce negli occhi, la luce di un ragazzino che ha passato le sessanta primavere pensando unicamente ai film, alle storie che gli venivano in testa, non al mercato. È di un altro mondo, di una galassia lontana dove ogni sfida è seduzione, rovescio della consuetudine, fascinazione eterna. Proprio come Don Chisciotte.
Nino G. D’Attis |
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