|
|||||||||||||||||||
Pater Familias |
|||||||||||||||||||
Opera prima tratta da un libro di Massimo Cacciapuoti (co-sceneggiatore), realizzato con un budget ridottissimo, se non avesse "scioccato" Berlino, come recita il sottotitolo sulla locandina, probabilmente non sarebbe mai uscito nelle impenetrabili sale italiane. Per una volta, è l’arte ad intrufolarsi nel mercato e non viceversa. Pater familias è un dramma senza via d’uscita (una storia realmente accaduta), è un pugno nello stomaco che si genera sulla latitanza dei padri (anche su quella del padre dei padri, presente solo sui muri) e sul doloroso silenzio delle madri, coscienti ma impotenti di fronte al degrado umano al quale assistono. In certi posti del mondo tutto ciò che avviene pare inevitabile, e la salvezza non può che essere donna… Nei quartieri popolari di Giuliano (provincia di Napoli) non esiste la casualità degli eventi, e nessuno sembra poter determinare la propria vita, anzi, quest’ultima è irrimediabilmente condizionata dal contesto sociale, ed anche gli angeli corrono il rischio di un destino infame. Il film è secco e diretto, non c’è spazio per i fronzoli, si illustrano gli effetti e non le cause, i personaggi sono colti nel loro canto del cigno, nel loro disfarsi, nel perdere l’ultimo barlume di umanità prima di diventare ed agire come bestie. Nessuna spiegazione né tanto meno compiacenza nell’arrivare ad un finale che ci appare prevedibile nella misura in cui è inevitabile. Questo che a prima vista sembra il difetto più grande del film (la mancanza di un approfondimento socio-psicologico dei personaggi), in realtà, è il punto di partenza per apprezzarne i pregi. La soluzione di generare il film sul ricordo del protagonista che, prima di agire e risolvere il dramma, nell’attesa, fa un sunto degli eventi che lo hanno portato a quel punto della propria vita, e l’impianto emotivo che sottostà ad ogni azione: la vendetta, l’incesto, la paternità (topoi classici della drammaturgia antica che rendono i personaggi gli archetipi di un microcosmo) suffraga il "difetto" suddetto dal punto di vista narrativo. Una regia poetica, densa d’inventiva, coraggiosa al punto di sbagliare, ma soprattutto sincera e personale, restituendoci tutto il peso di un ambiente (urbano e familiare) nel suo essere claustrofobico, marcio e prima causa di ogni male, risolve il "difetto" dal punto di vista stilistico. Francesco Patierno non ha paura, non teme la m.d.p., e dissemina per tutto il film interessanti trovate linguistiche, una su tutte: l’applicazione frequente del rallentì a delle azioni fuori dalla funzionalità del racconto, fissa e sospende i suoi personaggi lontano dalla storia, fuori dalle regole narrative; il lungo rallentì dei ragazzi che scendono dal muretto, li sospende in un gesto universale, un atto che chiunque altro ragazzo compierebbe allo stesso modo, nella meccanicità di quella "discesa" Patierno si prende, e dà allo spettatore, il tempo di osservarli, di coglierne l’umanità prima che il dramma-ambiente abbia il sopravvento su di loro. Un’opera discontinua è vero (in tal senso il finale è sintomatico: apre su una carrellata scontata ed ammiccante, ma si chiude su una scena primordiale che ci dà conto dell’inevitabile predestinazione dei protagonisti), ma assolutamente da difendere.
Davide Catallo |
|||||||||||||||||||
|