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Respiro di Antonello Schioppa |
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Emanuele Crialese esordisce nel 1997 girando a New York in lingua inglese: Once we were strangers, una coproduzione Italia-Usa. Risultato: è il primo italiano ammesso al celebre Sundance Film Festival di Robert Redford, prima ancora del pugliese Sangue Vivo di Edoardo Winspeare. Con Respiro invece il regista si trasferisce a Lampedusa, e da qui parte per la “Semaine de la Critique” di Cannes 2002. Ancora applausi, Valeria Golino conquista le copertine della stampa francese ed i bookmakers della Croisette ne anticipano ben presto la vittoria nella sezione più cinefila della kermesse. Al film vanno attribuiti almeno due meriti essenziali: il primo è di ordine strategico. Respiro andrà benissimo all’estero, perché oltre ad essere un lavoro di qualità la pellicola possiede il requisito essenziale che ha permesso al Tornatore di Nuovo Cinema Paradiso, al Salvatores di Mediterraneo e al Benigni de La Vita è Bella di raggiungere i mercati statunitensi: la messa in scena cioè di un’ Italia e di un’ italianità celebre nel mondo, a cavallo di un linguaggio che rielabora e rigurgita magistralmente l’immaginario del grande cinema nostrano del passato, mostrandosi capace con sufficiente carisma di giocare con la persistenza delle sue immagini negli spettatori di ogni dove. Senza questo attributo essenziale, il semplice intrinseco valore di tali opere difficilmente sarebbe bastato ai tre autori italiani per raggiungere gli Oscar di Los Angeles: ne è la riprova il mediocre destino del magnifico ultimo film di Olmi (celebrato troppo tardi dalla pioggia di David) o de La stanza del figlio di Moretti, a cui non è neanche bastato il successo di Cannes per convincere gli americani. Il secondo e fondamentale merito è la regia: Crialese ha dimostrato di saper scegliere gli attori (e in Italia non sono in molti a saperlo fare). Ha diretto inoltre in maniera quasi perfetta i tanti non-attori, autentici pescatori dell’isola, ed ha assorbito in maniera invidiabile il genio visivo del grande Antonioni, mescolandolo con la leggerezza e le icone del neorealismo rosa di Risi o Comencini. Il film abbaglia soprattutto con le immagini. La storia esiste essenzialmente tra lo spazio che separa e unisce i personaggi e lo spazio solare dell’isola. Una Lampedusa che appare e scompare, mai troppo concessa, mai mostrata nella sua bellezza da cartolina, ma irruenta e marcante solo attraverso i volti degli uomini che la abitano, insinuante negli spazi stretti sui bordi dell’inquadratura, addirittura inedita e imbruttita tra gli scheletri dell’incompetenza edilizia. E su di essa ci sono i suoi abitanti, in simbiosi con le rocce, quasi naufraghi e prigionieri di un mondo di confine. Al centro c’è Valeria Golino nella parte di una giovane madre di famiglia, spensierata, lunatica, vulcanica. I suoi figli e suo marito la amano, e lei fa di tutto per renderli felici. Ma il desiderio e l’amore non bastano perché i giorni possano scorrere piacevoli e senza scossoni, al riparo dalle urla cavernose delle contraddizioni e delle incomprensioni. Vivere in superficie a volte toglie il respiro, per questo è necessario tornare a credere di poter respirare anche sott’acqua, nascosti dalle condizioni che l’esistenza impone. Il regista Emanuele Crialese a volte sembra riuscire addirittura a manipolare gli elementi naturali. E sembra quasi non voler raccontare nessuna storia, se non quella universale della vita. Lo fa partendo dal lento scorrere quotidiano e noioso del tempo, per trasportarci lentamente nel guscio sommerso del sogno, in cui i ruoli svaniscono e il punto di vista si capovolge: splendida, per chi la vedrà, l’ultima immagine. Un successo davvero meritato.
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