Che cos’è un
nome? Un tema già affrontato da un grande autore come Shakespeare e che
ora ritorna in una veste diversa, ma col medesimo significato ne La
Città incantata.
Che cos’è un
nome? Una parola che noi associamo ad una persona, ma che non fa di
questa un uomo. È un suono individuato da lettere che aiuta la nostra
coscienza a identificare qualcuno o qualcosa.
Che cosa
accadrebbe se non avessimo più un nome?
Forse questa
è la domanda di partenza che si è posto Hayao
Myazaki nel suo film. In Giappone la discendenza e la propria
persona è identificata da un kanzi, cioè dalla scrittura del
proprio nome. Nella terra d’oriente i simboli hanno vari significati
secondo il modo in cui vengono associati, in più le rigide regole della
società danno enorme risalto alla storia della famiglia. Se i nostri
nonni e genitori sono medici, anche noi lo diventeremo e al nostro
cognome verrà affiancata l’idea del medico ed un kanzi, questo è
un esempio banale per comprendere la maniacale
importanza
che riveste il proprio nome. Chihiro, la
protagonista del film ne viene privata in cambio di un lavoro, un essere
umano privato della propria identità. Un modo molto semplice e diretto
per mostrarci un dramma mondiale in cui, noi tutti giunti ad una fase
della vita siamo costretti a crescere e a costruire la nostra figura, ma
allo stesso tempo un denuncia velata contro una globalizzazione che
fagocita non solo le culture, ma anche le persone. Chihiro non è più
Chihiro, ma diventa Sen, da bambina
capricciosa si trasforma in massaia alle terme, un nuovo nome, una nuova
identità, forse ma non è del tutto vero. Essere vista come qualcun altro
non priva la protagonista delle proprie qualità, al contrario, esse sono
finalmente libere dai canoni comportamentali e quindi pronte a formare
una vera persona. Certo il fatto di trovarsi in un nuovo ambiente la fa
lentamente svanire, ma questa è la fase che precede la maturità, una
sorta di breve periodo adolescenziale che nel nostro tempo sembra essere
proteso all’infinito. Un vero io che nasce dalla nostra volontà e non
dalla volontà altrui, un io conquistato rimane radicato nella coscienza.
La città incantata
spazia dal tema dell’identità interiore a quello della forma. Il
film è intriso di un grande spirito religioso, tanto da essere
ambientato nella città degli dei dove gli spiriti acquistano le fattezze
della propria natura e non solo loro. I genitori della protagonista
vengono tramutati in maiali a causa della loro ingordigia, possiamo
trovare delle analogie omeriche volendo, ma molto più
semplicemente
il buddismo o lo scintoismo credono nella reincarnazione e nella
trasformazione in animali inferiori come punizione divina. Altra vittima
di questo contrappasso è il figlio della strega, che da bambino
capriccioso e gigante diviene un topo. Ecco che come
Dante, anche Miyazaki crea il suo personale
inferno, ma con la possibilità di redimersi.
Un film
semplice e moderno che supera le barriere del tempo e delle culture.
Senza troppe pretese si cerca di ritrovare un’infanzia e una maturità
perduti nel vortice della tecnologia, ma allo stesso tempo si cade in
quello che più si combatte, la globalizzazione. La città incantata
affronta temi di universale approccio riuscendo in tale maniera a
raggiungere anche noi europei, inoltre è contaminato non solo dalle
collaborazioni, ma anche da riferimenti alla cultura attuale giapponese
che è sempre più vicina alla nostra.
Questo
lungometraggio è come se volesse dirci che non esistono più confini e
che l’unica maniera di non svanire è quella di creare un proprio spazio
con la volontà. Filosofia di pensiero vicina a
Georges Prevelakis, che vede la globalizzazione come inevitabile,
poiché l’uomo è portato a vivere in comunità sempre più complesse e ciò
che la rende inquietante è "la scomparsa della distinzione tra l’interno
e l’esterno", concetto preso dall’urbanistica che si adatta
perfettamente al quotidiano. La soluzione a tale dilemma è dato
dall’introduzione delle ‘diasporè o meglio un fattore culturale che
ritorna dal passato o che nasce dal nulla, una sorta di ricerca di
tradizioni a cui aggrapparsi. Il ritorno al fattore culturale avviene
parallelamente alla crescita della città, quindi più si allarga lo
spazio urbano più nuove correnti diasporiche si formeranno. Non ho idea
se Hayo Miyazaki abbia mai letto Prevelakis, ma la sua grande
sensibilità lo hanno aiutato a seguire la medesima linea di pensiero.
Il
Giappone moderno è sospeso tra due mondi, come Chihiro, e deve lottare
per conservare una propria identità storica, allo stesso tempo lo
svanire di molti confini gli permette di maturare e di riscoprire nuove
tradizioni. Una bambina che cambia città e scopre un mondo nuovo, si
adatta ad esso e trova se stessa, un’immagine simbolica per raccontare
gli umori di un periodo transitorio del mondo, un trattato sulla nostra
epoca, un’ opera d’arte. La sensibilità di un singolo uomo impressa su
pellicola.
Massimo Macchia