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Sweet Sixteen

   

Sweet Sixteen di Ken Loach

Regia: Ken Loach

Interpreti: Martin Compston, Michelle Coulter, Annmarie Fulton, William Ruane, Gary McCormack, Tommy McKee

Sceneggiatura: Paul Laverty

Scenografia: Martin Johnson

Fotografia: Barry Ackroyd

Musiche: George Fenton

Montaggio: Jonathan Morris

Produzione: Rebecca O’Brien

Paese: UK / Germania / Spagna  Anno: 2002

Durata: 106'

Distribuzione: BIM

Sito ufficiale: www.bimfilm.com/sweetsixteen/

   

Quanto è difficile per un regista parlare del proprio lavoro, verbalizzare sogni, intuizioni e tutto ciò che è nato per essere immagine e suono?

Chi ha avuto modo di ascoltare o di leggere gli interventi di Ken Loach, chiari, diretti e decisi, ha potuto constatare come non sia un problema del regista britannico. Questo perché Loach possiede un’agenda politica che genera, informa e organizza il processo creativo. In altri termini ha sempre qualcosa di molto preciso da dimostrare: una tesi per un film a tesi.

Se questa premessa di poetica sia una ricetta efficace o una gabbia avvilente dipende da cosa ci aspettiamo dal cinema, ma anche dai singoli risultati.

Accade che stavolta le maglie della retorica serrata ma prevedibile che aveva compromesso gli ultimi film del regista si aprono a spiragli di vita e di cinema. Sarà la freschezza degli attori, a cominciare dal protagonista ed esordiente Martin Compston, a tratti commoventi nella loro adesione alla parte; sarà la degradata eppure affascinante bellezza del paesaggio fotografato con una cura totalmente aliena da intenti estetizzanti.

Loach torna in Scozia, terra dello sceneggiatore Paul Laverty, e più precisamente a Greenock, città dove la chiusura dei cantieri navali ha avuto effetti devastanti sul tessuto sociale. Venti anni di disoccupazione hanno agito anche nei rapporti umani, hanno disintegrato famiglie e cancellato dal vocabolario la parola speranza.

I dolci sedici anni sono, ironicamente, quelli che sta per compiere Liam, adolescente che vive ai margini della legalità, sospeso tra pulsioni autodistruttive e l’illusione di una vita normale per sé e per la madre tossicodipendente. Le une e l’altra lo portano sulla strada del crimine, verso la corruzione e il tradimento, verso una disperazione forse senza ritorno.

Il film inizia con gli occhi del protagonista rivolti alle stelle, come i "ribelli senza una causa" di Nicholas Ray, e finisce con Liam, solo e sconfitto, in piena luce sulla costa del fiume Clyde, simile eppure tanto distante dal mare verso cui fugge il piccolo Antoine Doinel alla fine dei Quattrocento colpi.

Niente lieto fine dunque, ma, sostiene Loach, la fine delle illusioni è comunque una cosa buona, un punto da cui ripartire.

Il regista e il suo collaboratore conoscono e sentono il problema, con la mente e con il cuore, e sicuramente potrebbero farne uno splendido documentario. Invece decidono di mettere in scena una storia, di farlo senza rinunciare a nessun trucco di genere, dal melodramma al gangster movie alla commedia, e di coinvolgere nell’operazione una parte della comunità. In questa voglia di lavorare insieme c’è una specie di riscatto per la durezza della trama e forse per un’idea di cinema che può sembrare angusta.

 

Alessio Trabacchini