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UN MONDO D’AMORE |
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Inseguire un poeta con la macchina del cinema è cosa assai difficile. La prova diventa decisamente più impervia se il poeta in questione si chiama Pier Paolo Pasolini. Per la vita che ha vissuto, le opere immense che ci ha lasciato sulla pagina o sul grande schermo, per quella morte che ancora brucia, Pasolini è un soggetto tanto interessante quanto inafferrabile. Elegia amorosa, documento e traccia, non monumento (e non solo perché in questi casi si dice "lui non l’avrebbe voluto"): così, in Un Mondo d’amore, Aurelio Grimaldi, dopo Nerolio (1996), ha scelto di raccontare una porzione amara dell’esistenza del poeta. Il film torna all’inverno del 1949, quando le accuse per corruzione di minori e atti osceni marchiarono come depravato ed educatore indegno l’allora ventisettenne insegnante di lettere, articolista, segretario cittadino del P.C.I. a Casarsa della Delizia, Friuli. La prima offesa, il primo passo verso quel calvario costellato di campagne diffamatorie (più tardi tenteranno di attribuirgli addirittura una rapina a un distributore di benzina) atte a disseminare allarme sociale, a fare dell’artista un nemico pubblico, una minaccia per lo Stato. Aveva partecipato a una festa contadina nel vicino paese di Ramuscello. Si era appartato con dei ragazzini. Non c’era stata nessuna violenza. Le voci sull’episodio corsero di bocca in bocca, giunsero in breve tempo alle orecchie delle autorità. Fu uno scandalo: sospeso dall’insegnamento, espulso dal partito, additato dall’opinione pubblica locale, Pasolini evitò il carcere perché le famiglie dei ragazzi non sporsero denuncia. Suo padre Carlo Alberto, graduato ed eroe di guerra, precipitò in un baratro di vergogna, anticamera di una depressione destinata ad accompagnarlo fino agli ultimi giorni. Solo l’amore della madre Susanna e la solidarietà di pochi intimi apriranno al poeta la via della fuga verso Roma, città delle grandi speranze, delle ambizioni da coltivare in un dopoguerra privato fatto di fame e sconfitte, scandito dall’attesa di un cambiamento positivo. È un ripercorrere in bianco e nero (con la fotografia fortemente evocativa di Massimo Intoppa) luoghi e ordini temporali, un ricostruire volti, espressioni, confini tra le persone, curvando il presente verso il passato, eppure prestando attenzione a conservare una certa leggerezza. Il giovane Arturo Paglia incarna con pochi gesti gli echi sentimentali di Pasolini: quando all’inizio del film lo vediamo entrare nella stanza dove avrà luogo il drammatico e in parte surreale interrogatorio condotto da un maresciallo campano che storpia il nome di Gide, l’attore ha già aggirato il baratro della stucchevolezza. Per le strade di una Roma bagnata dal sole, nei polverosi rettangoli dove i ragazzi delle borgate tirano calci a un pallone, è l’alieno Pier Paolo che osserva un mondo nuovo e prende appunti, spedisce lettere, non dispera di trovare uno spiraglio bussando a mille porte. Cinecittà è lì, ma non sa di attenderlo (lo scaccia,anzi, per bocca di un becero aiuto regista). Non ci sono ancora i fratelli Citti e Ninetto e Laura Betti, ma verranno, sembra quasi di vederli fare capolino da una finestra, da un balcone mentre Pier Paolo cammina secco ed emaciato, la giacca in spalla. Un Mondo d’amore è come la canzone La Terza luna di Neil Sedaka che attraversa il film: racconta una storia struggente, riesce a far passare un moto di sincera devozione attutendo con semplici immagini/strofe la caduta nell’agiografia, fermandosi mirabilmente al momento giusto, un attimo prima del ‘troppo’ e del già visto. Cinema imperturbabilmente semplice che si fa fiore di poesia, soffio di bellezza fuori dal mercato. Emozione.
(N.G.D’A.) |
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