Tsukamoto, A snake of june: Recensione, Carne morente sotto la pioggia, Filmografia Tsukamoto |
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A SNAKE OF JUNE |
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Un Serpente di giugno è il settimo lungometraggio di Tsukamoto Shinya, che con Tetsuo ha segnato il cinema e l’immaginario contemporaneo. Nonostante il regista giapponese sia da un decennio oggetto di culto, questo è il suo primo film ad essere distribuito in Italia, dopo aver vinto il premio speciale della Giuria nella sezione Controcorrente alla Mostra del Cinema Di Venezia 2002. Rinko, consulente in un centro di soccorso telefonico, è sposata con Shigehiko uomo d’affari inaridito e maniaco della pulizia. Si muovono come automi nell’ambiente asettico della metropoli mentre il loro rapporto si trascina nell’indifferenza. Ma con la stagione delle piogge un misterioso voyeur arriva a sconvolgere per sempre la loro esistenza.
“Gli occhi sono delle mani che non si riusciranno mai a lavare”. (Robert Musil)
Tsukamoto raggiunge la maturità con quest’opera che arriva dopo una gestazione durata più di quindici anni: “A giugno quando cominciava la stagione delle piogge, il desiderio di farlo sbocciava dentro di me. Ma quando l’estate finiva, perdevo la motivazione”. Un film sempre rimandato che ha nutrito di idee e suggestioni tutta la produzione di Tsukamoto e ora si presenta, scarnificato e quasi purificato, a chiudere un ciclo nella sua carriera. Sospesa tra fascino e repulsione, l’ossessione cyber per le mutazioni indotte dalla tecnologia e dalla civiltà industriale viene stavolta assorbita in un racconto che esalta il potere rivoluzionario della sessualità. La sintassi filmica si sviluppa ancora come una serie di traumi, ma con un equilibrio e con un’aderenza al reale che rendono A Snake of June compatto e risolto come mai prima d’ora. L’estetica dello shock è stavolta al servizio di una storia sensuale e violenta di salvezza che racconta il risveglio del corpo nella città moderna di acciaio e cemento. L’acqua cade incessante, impregna i vestiti e copre la pelle della giovane protagonista, contamina e feconda ogni immagine come in uno stato di orgasmo permanente, imbevendo di blu il bianco e nero della fotografia. Fedele alla sua prassi autarchica, Tsukamoto fa quasi tutto da solo: dal montaggio schizoide eppure rigoroso, alla sceneggiatura mai così fluida e lineare; è anche il voyeur sadico e disperato che pilota gli altri due personaggi, duplicando la sua identità di regista. Nel corso del film si assiste al sistematico rovesciamento di valore di tabù come il voyeurismo, la violenza, la malattia: tutti strumenti per aprire un varco nella prigione dell’inorganico. “È la presa d’atto che il corpo, pur in una condizione per sempre diversa, continuerà ad esistere”.
Giorgio Giliberti Alessio Trabacchini
Le due frasi citate sono state pronunciate da Tsukamoto Shinya durante la conferenza stampa in apertura della retrospettiva completa della sua opera organizzata nel marzo scorso dall’Istituto di cultura giapponese di Roma. |
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