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Buongiorno,Notte |
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Sinceramente imbarazzante. Imbarazzanti le dichiarazioni di Bellocchio che torna a Roma e «non nasconde l’amarezza», di Rai Cinema che ha commissionato e prodotto il film (ha annunciato che non manderà più opere a Venezia) e della stampa italiana che confonde la critica cinematografica con il tifo da stadio. Al festival hanno vinto due pellicole considerate meritevoli all’unanimità da giuria, critica e pubblico: Leone d’Oro al russo The Return e Gran Premio della Giuria ai samurai erranti di Takeshi Kitano. Esclusi gli altri aspiranti: oltre a Buongiorno, notte, l’estremo e metacinematografico Bu San (Goodbye Dragon Inn) del taiwanese Ming-Liang Tsai e l’ennesimo De Oliveira con Un filme falado. Doveva essere l’anno del sorpasso su Cannes, e invece la mostra numero 60 si risolve in un pietoso testa coda: troppi i film mediocri, troppa la disorganizzazione, troppo scarse le occasioni d’incontro tra pubblico e autori, troppo pochi i posti a disposizione. Uno spaventoso schianto a cui non si sottrae il cinema italiano che aspirava alla consacrazione della propria “primavera”: i primi due film in concorso (Segreti di stato di Benvenuti e Il miracolo di Winspeare ) si risolvono in prodotti forse piacevoli, forse godibili, ma essenzialmente provinciali, poveri di linguaggio e d’invenzioni ed inferiori alla maggioranza delle opere in concorso. E Bellocchio, uno dei pochi registi “vivi” della sua generazione, si presenta con qualche marcia in meno rispetto al successo de L’ Ora di religione. Ma la televisione e i media (soprattutto i Tg della Rai) parlano di grande successo, applausi ed entusiasmo per Buongiorno, notte. Assolutamente falso: il film ha spaccato il Lido, e se è vero che la prima visione in Sala Grande ha riscosso lunghi applausi, è anche vero che le proiezioni successive al Pala Bnl e alla Sala Astra hanno avuto un’accoglienza ben più tiepida. In molti hanno accusato la psicologia dei brigatisti disegnata dal regista (secondo alcuni poco credibile) e storto il naso davanti ad una fattura tecnica non sempre felice. Il film possiede un’ottima intuizione iniziale: raccontare una pagina della recente storia italiana scartando l’impianto giornalistico per imboccare la strada del dramma intimo ed umano. Con grande sensibilità e poesia si disegna il confronto universale dell’uomo contro la morte, dell’astrazione teorica della rivoluzione contro il peso concreto della vita umana, dell’ideologia contro l’ideologia. Così la prigionia di Moro e l’utopia della rivoluzione brigatista si trasformano in un sorprendente dramma onirico, una ballata oscura, asfissiante e mortale che cavalca la psichedelia dei Pink Floyd per grattare l’inquietudine profonda degli anni Settanta. Bellocchio cerca di aprire una fessura sulla quotidianità di questi “soldati” in lotta contro lo Stato, “eroi” che hanno creduto nella disumanità per arrivare ad un’Italia migliore, trasfigurando l’omicidio del leader della DC nell’encefalogramma di una lacerazione interiore, nell’eco ovattato della progressiva follia che contamina la coscienza del cecchino costretto ad uccidere per fare la Rivoluzione. Perché la Rivoluzione, come diceva Mao, «è un atto di violenza». Il punto di partenza è dunque splendido, ma il percorso non è sempre vincente. Buongiorno, notte è infatti un film che vive di belle intuizioni che non sempre fanno centro. Se ne L’ Ora di religione il regista trova in modo impareggiabile la via iconografica per mostrare il tormento dei propri protagonisti, ora invece non riesce fino in fondo a ottenere una chiave personale per “mostrare” la Storia attraverso lo spirito di chi la compie. È una buona prova di cinema italiano che però, forse, è ancora una volta secondo. Secondo alla freschezza e alla vitalità delle altre cinematografie, secondo alla forza di alcuni nuovi autori, secondo se pretende con l’arroganza urlata di meritare “a priori” la vittoria di una kermesse. Un cinema che, nel panorama internazionale, forse è in qualche modo troppo rigido e troppo imperfetto. Da segnalare uno splendido documentario di 60 minuti, presentato al Lido nella sezione “Nuovi territori”, sulla lavorazione stessa del film: Stessa rabbia, stessa primavera diretto da Stefano Incerti (già regista di tre lungometraggi: Il Verificatore, Prima del tramonto, La vita come viene e l’episodio Il diavolo nella bottiglia nel film collettivo I Vesuviani). Una testimonianza preziosa che include la voce diretta dei veri Brigatisti di allora scindendosi in un affresco che si fa cronaca storica, documento cinematografico e viaggio a ritroso nella filmografia del regista emiliano.
Antonello Schioppa |
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