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CITY OF GOD |
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“Bambini, amanti e male amati, assassini adolescenti assassinati”[1] nella Città di Dio , una delle più degradate favelas di Rio de Janeiro. L’occhio che guarda è di Buscapè, una sorta di alter ego di Paulo Lins, autore del romanzo omonimo da cui il film è tratto, anch’egli figlio di Cidade de Deus e della violenza che vi regna sovrana. Buscapé non è il protagonista dell’opera, l’attraversa raccontandoci la nascita del crimine organizzato e lo sviluppo del narcotraffico in questa favela dalla fine degli anni sessanta all’inizio degli anni ottanta. Il suo sguardo, proprio come l’inseparabile macchina fotografica, sua unica alleata, immortala gli amori, le vite, le morti e i (piccoli) miracoli come il suo: riuscire a sopravvivere e a realizzarsi in un mondo dai destini già segnati, condannati alla delinquenza e ad una morte prematura. La vera protagonista del film di Meirelles è la baraccopoli dal nome paradossale, grande madre di tanti figli senza padre, né speranza. Sono loro a far pulsare le pagine del romanzo e a renderle vere. Oltre trecento ragazzi, presi dalle favelas di Rio, hanno dato letteralmente voce a quella realtà che, dopo vent’anni rispetto ai fatti raccontati nel libro, è rimasta inalterata, se non peggiorata. In questi posti il narcotraffico è ancora il cardine dell’economia, lo stato è invisibile, le leggi non valgono, i poveri continuano ad ammazzarsi tra di loro, la polizia, come si mostra nel film, è spietata e corrotta. Gli unici a comandare sono i boss della droga ed è a loro che si è dovuta rivolgere la troupe per girare in questi luoghi. Il lavoro di sceneggiatura è stato lungo e laborioso, ci sono volute ben dodici revisioni per trasformare le seicento pagine e i trecento personaggi del romanzo in immagini, dure, dense, magmatiche e urticanti. La vita vissuta, il linguaggio e la capacità di improvvisazione degli attori non professionisti, alla fine, ha avuto la meglio sulla sceneggiatura ed è un vero peccato che in Italia il film, purtroppo, uscirà doppiato. L’architettura narrativa è complessa e coraggiosa, circolare e zigzagante, fatta di storie che si interrompono in continuazione per far posto ad altre; ha come fulcro il punto di vista di Buscapè, ragazzino undicenne (all’inizio della storia), con una famiglia più solida di molti altri coetanei e poco portato al crimine. Il suo approccio a questa realtà è perciò dall’interno, ma un po’ distaccato, come filtrato dal mezzo fotografico che costituisce per lui una vera e propria ancora di salvezza. Buscapè osserva gli altri ragazzini del quartiere che rubano, spacciano, si menano, si ammazzano o sono ammazzati dalla polizia; assiste allo spreco di tante giovani vite spezzate con l’accettazione inerte di chi è costretto a conviverci da sempre. Il ragazzino continua gli studi, fa qualche lavoretto occasionale barcamenandosi tra il crimine e la retta via , ma sa che se sopravviverà, da grande farà il fotografo. Fernando Meirelles, similmente al romanzo, divide l’opera in tre parti, tre fasi temporali distinte per tre stili diversi. La prima parte racconta la storia del “Tender Trio”, ambientata negli anni sessanta, al ritmo della samba. Evoca una sorta di criminalità romantica, una certa innocenza giovanile espressa attraverso uno stile piuttosto classico, fatto di camera fissa e carrellate. La seconda si svolge agli inizi degli anni settanta. È la storia di “Zé Pequeno”: gli affari cominciano a crescere col traffico di droga. Tanti colori acidi, lisergici, una macchina da presa più libera, un montaggio più sciolto, meno serrato, un’atmosfera alla marijuana, con l’aria densa di pop, funk e musica black. L’ultimo capitolo è riservato alla guerra per il controllo del narcotraffico. Siamo negli anni ottanta ed è l’episodio di “Manè Galinha”: monocromatico, convulso, agitato. Montaggio frastagliato e discontinuo, ritmo affannoso, velocissimo, da cocaina, con panoramiche veloci e macchina fuori fuoco, vibrazioni heavy metal. City of God rappresenta, sotto molti punti di vista, una tappa fondamentale nella rinascita del cinema brasiliano. Si nutre del neorealismo e del cinema novo nel lasciare che la realtà possa interferire con la finzione, sporcandola col fango delle favelas; ricorda Pixote di Hector Babenco, per il grande lavoro con attori non professionisti, ma soprattutto, il cinema di Scorsese per lo stile e l'alto tasso di violenza 'morale'. Infine si avvicina ad un capolavoro come i Figli della violenza per il quale Octavio Paz spese parole che sembrano scritte a posta per il film di Meirelles. “ Un’ opera precisa come un meccanismo, allucinante come un sogno, implacabile come la marcia della lava”. A differenza del film di Buñuel, però, Cidade de Deus, oltre a denunciare l’infinita spirale di violenza di cui è vittima questa umanità, sopraffatta dalla crudeltà, ci regala anche ironici sprazzi di incontenibile vitalità.
Giorgio Giliberti
[1] Jacques Prevert dalla sua recensione in forma di poesia de I Figli della violenza (Los Olvidados) di Luis Buñuel |
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