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L’EREDITÀ |
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Miglior sceneggiatura al Festival di San Sebastian, sei premi della Danish Film Academy, in patria ha anche battuto Dogville agli incassi ed è il secondo tassello (dopo The Bench, uscito nel 2000) di una trilogia dedicata alle divisioni sociali nel terzo millennio. Per Fly prova e riprova a volare da solo. Lontano (ma non più del necessario) dall’onnipresente, arrogante aquila von Trier che de L’eredità è anche produttore. Lontano dal credo retrivo e falsamente iconoclasta del gruppo Dogma, almeno in qualche leziosa scelta formale insufficiente a far parlare di personalità, di impronta cortocircuitante se poi il risultato è un drammone noioso al cubo che si sfilaccia clamorosamente già al decimo minuto. È di scena la borghesia arricchita (che palle!). Christoffer (Ulrich Thomsen, tra gli interpreti di Festen), rampollo di un magnate della siderurgia, torna a Copenhagen e raccoglie gli strumenti del padre per diventare a sua volta padrone di merda, marito e cognato indegno. La fabbrica (la Borch Møller). Gli operai da licenziare. Le responsabilità schiaccianti. A Stoccolma, dove faceva il ristoratore, Christoffer viveva felice. Colpa della durissima madre se, a babbo morto e con l’acciaieria in grave crisi finanziaria, il ragazzo si ritrova a dover scegliere tra il potere e l’amore. Vive sotto tensione una terza vita che si configura come riappropriazione di un habitat e di quei panni borghesi odiati/abbandonati tempo prima. L’evento luttuoso genera un disordine temporaneo che precede una reintegrazione tutta simbolica: trapassato il patriarca, la macchina deve riprendere a funzionare con un nuovo right man in the right place legato biologicamente al defunto. Christoffer: un ‘povero ricco’ che non ha neppure la facciotta di Renato Pozzetto, l’occhio spiritato di un Edoardo Agnelli (unico povero Cristo al mondo convinto di poter far copulare insieme gli aggettivi "ricco" e "poeta"). L’identità di classe che continua a far male come un arto fantasma dopo l’amputazione: è ancora lì, non hanno tagliato via niente e il desiderio, la volontà non sono mai appartenuti al protagonista. E allora? L’impossibilità di sfuggire al marchio di appartenenza, alla propria natura, era già stata sottolineata sul grande schermo da un vecchio Michael Corleone ne Il Padrino III, giusto per fare un esempio. E nella vita reale, "La famiglia prima di tutto" è un motto da Piersilvio. Che ce ne facciamo del sofferto ritorno all’ovile di Christoffer? L’intenzione ha ucciso un altro cineamatore danese. Come fargli capire che un apologo verboso e, peggio ancora, edificante sarà sempre la miseria, il postumo del cinema? Come spiegarlo agli onanisti che questo cinemino autoriale lo amano o almeno fingono di amarlo per sentirsi più colti, più "avanti" della media? Non ci sono eccessi, non c’è implosione ne L’eredità. Si fa presto a dimenticare personaggi bidimensionali, figurine che si muovono malamente all’interno di una messa in scena mediocre (sempre questa fotografia gelida, ma la sceneggiatura in confronto è un deposito della Sammontana). Nulla che faccia pensare alla presenza di marcio autentico nel cinema di Per Fly.
(V.L.) |
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