|
||||||||||||||||||||
LE CHIAVI DI CASA |
||||||||||||||||||||
Noi italiani, si sa, siamo un popolo di poeti, navigatori e santi, ma soprattutto di bonaccioni e di “pezzi di pane”. Ci commuoviamo per le storie più struggenti e sofferte, adottiamo i Mustaphà, seguiamo Vermicino fino all’alba, facciamo fiaccolate per gli ostaggi (salvo poi ignorare cosa siano le ONG, ma vabbè questo è un altro discorso), e ci struggiamo se litigano Alessandra e Costantino, o se dietro la busta delle lettere di Maria De Filippi o dal palco della Carrà non appare l’esule o transfuga amato. Non potevamo esimerci quindi dall’incensare preventivamente il film-lacrima per eccellenza dell’ultimo anno: Le Chiavi di casa, di Gianni Amelio (l’interpunzione è d’obbligo, altrimenti sembrerebbe di voler forzare l’abitazione del regista…). Presentato all’ultimo Festival di Venezia come il favorito numero uno della rassegna, il film non ha ricevuto i premi preventivati, per i quali persino il Ministro Urbani si era molto esposto. È stato osannato dal pubblico e dalla critica, ma né il regista, né tantomeno i tre attori hanno potuto ricevere le ambite “statuette”, come invece era capitato tre anni orsono a Nanni Moretti ed alla sua “stanza del figlio”. Scandalo, stupore, sudore e lacrime, dagli alla giuria. Ma com’è possibile? Si parla di handicap, ci fanno piangere e versare lacrime su lacrime e non vincono niente? Giuria incompetente se il premio lo vince un film inglese che non vedrà nessuno (certo è che, effettivamente, Raoul Bova tra i giurati…), non ha rispetto del dolore di un handicappato e del suo sforzo interpretativo! Noi invece, personalissimamente, siamo felicissimi che Le Chiavi di casa non abbia conseguito alcun premio ufficiale. Non perché non sia un bel film, anzi è un gran bel film, ma perché odiamo questo buonismo e questa voglia di pollitically correct a tutti i costi che serpeggia nel nostro paese: è inutile piangere e commuoversi quando sullo schermo vediamo la storia, comune purtroppo a tante famiglie, di quanto sia problematica la vita con un “diversamente abile” in casa. È comodo, troppo comodo, ed anche vigliacco, perché tutta l’ammirazione è dettata da un senso di compassione che vada a mettere a posto la coscienza. Piangiamo, piangete anzi, perché è così che si deve fare di fronte ad una “sventura” del genere. Ed è per questo che secondo noi, invece, Amelio ed il suo gruppo ristretto di attori, dovrebbero essere felici di non essere stati premiati ufficialmente. Il Leone d’oro, o le Coppe Volpi, non sarebbero state sincere ed oggettive, ma determinate da un fortissimo senso di pena. Sentimento che, a nostro avviso, il film non vuole suscitare. Anzi è un inno alla vita, è un disvelamento di quanta forza vitale ci sia in un ragazzo con dei problemi, che ad un certo punto deve sorreggere moralmente il padre trovato dopo 15 anni. Non si piange nel film, non si deve piangere, anzi molto spesso la verve comica di Andrea Rossi, che interpreta il figlio di Kim Rossi Stuart, lo fa diventare anche divertente e piacevole. È un film sulla difficoltà di accettazione della diversità in un ambito familiare, ed in particolar modo da un punto di vista dell’uomo: anche qui sta la bravura di Amelio, nell’ aver affrontato una problematica, quasi esclusivamente analizzata al femminile, dalla prospettiva paterna. È la storia di un padre che, dopo 15 anni di assenza, cerca il figlio handicappato, avuto da una donna morta di parto, per portarlo a Berlino a curarsi. Qui incontra una donna, madre di una ragazza ricoverata in una clinica specializzata, che lo aiuta a superare le difficoltà psicologiche nell’affrontare la diversità. Kim Rossi Stuart si rivela essere, come spesso gli accade da dopo i kimoni dorati o i fantaghirò, un attore eccelso e sottovalutato: bbello e bbravo oseremmo dire, molto, ma molto di più di altri suoi colleghi che abbiamo citato in questo pezzo (tipo Bova, per non far nomi). Di Andrea Rossi abbiamo già detto: un ragazzo di una simpatia travolgente, sarebbe un peccato non rivederlo più sugli schermi. Anche la prova di Charlotte Rampling è degna di menzione, ma è lo spessore e la profondità dei personaggi a fare la differenza: non si avverte una sbavatura durante tutto l’arco del film, non c’è un’esagerazione, né un sentimentalismo eccessivo. È un film vero, punto. E allora, caro Gianni Amelio, dacci retta, te lo dice blackmailmag: hai fatto un gran bel film, che pubblico e premi e critici vigliacchi potrebbero solo rovinare. Perciò sappilo, Amelio: noi non abbiamo pianto! Simone Pollano |
||||||||||||||||||||
|