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OPEN WATER |
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L’interesse per questo piccolo B-movie è sano e giustificato, sano per il desiderio recondito che ogni mente pensante dovrebbe avere verso un cinema svincolato dalle sovrastrutture industriali e formali che troppo spesso lo circondano, giustificato dall’inevitabile curiosità di vedere un’opera quasi interamente realizzata in mare aperto e con soli due attori. La dichiarazione d’intenti da parte di Chris Kentis è inequivocabile, i primi quindici minuti di film sono realizzati con uno stile volutamente e smaccatamente “amatoriale” (vedi The Blair witch project), tanto che viene spontaneo pensare, che un giorno chissà, anche il filmino delle nostre vacanze potrebbe diventare un film. La ricerca di una dimensione realistica viene ampiamente alimentata dalle immagini iniziali del film e quando Daniel (Daniel Travis) e Susan (Blanchard Ryan) chiacchierano nella loro stanzetta, tornano alla mente non senza qualche imbarazzo e con le dovute proporzioni, Jean Paul Belmondo e Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro di J.L. Godard, o meglio, forse in quelle immagini è soddisfatto proprio quel desiderio di cui sopra, l’illusione di aggrapparsi quanto più possibile a delle immagini che non siano documentario o asettica fiction, ma semplicemente vere, vitali e personali (proprio come quelle di Godard). Purtroppo però, l’illusione del vero viene meno man mano che il film si avvicina al centro della nostra curiosità: la coppia dispersa nel mare circondata dagli squali e dalle loro inquietudini. Qualcosa s’inceppa e l’impressione generale è che sia tutto forzato e quasi ricercato. Il sol pensiero di ritrovarsi in quella stessa situazione fa rabbrividire ma le immagini non sembrano in grado di accompagnare lo spettatore in quel viaggio dell’emozione più viscerale che è la paura. Così, l’immedesimazione rimane l’unico appiglio per provare quello che il film prometteva ma che non riesce a mantenere: la tensione del caso. Difatti piacerà, più o meno, secondo la propensione d’ogni singola persona all’immedesimazione, anche se, la sua reale riuscita artistica va misurata sulle specificità formali. In questo senso, Open water palesa il suo più grande difetto proprio nel modo in cui tradisce i suoi intenti. La pretesa di raccontare nel modo più vero e “umano” possibile l’accaduto (una storia vera che non può, tra l’altro, esserlo del tutto) viene a scontrarsi con la vanità dell’autore che da uomo si fa “Dio” palesando la sua presenza. Tramonti, lune e cartoline varie (in sostanza tutto ciò che sfugge la scelta estrema di rimanere dentro il campo visivo dei due protagonisti) inserite all'interno di una struttura “amatoriale” riportano lo spettatore-critico alla realtà, e la realtà si chiama inganno. L’inganno di un’opera che si traveste da povera nel tentativo di codificare il linguaggio amatoriale e si manifesta ricca nel modo in cui ne svilisce la caratteristica primaria: l’illusione del reale. Open Water non è stilisticamente coerente e questo non aiuta di certo a creare quello per cui era stato pensato: una progressiva tensione emotiva. Davide Cavallo |
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