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Titolo originale:
id. |
Regia: Chris
Kentis |
Interpreti:
Blanchard Ryan, Daniel Travis, Saul Stein, Estelle Lau, Michael E.
Williamson, Christina Zenarro, Jon Charles, |
Soggetto e Sceneggiatura:
Chris Kentis |
Fotografia: Chris
Kentis, Lara Lau |
Suono: Glenn T.
Morgan |
Musiche: Graeme
Revell |
Montaggio: Chris
Kentis |
Produzione: Lara
Lau |
Paese: USA
Anno: 2003 |
Durata: 79' |
Distribuzione:
Eagle Pictures |
Sito ufficiale:
www.openwatermovie.com |
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L’interesse per questo piccolo B-movie è sano e giustificato,
sano per il desiderio recondito che ogni mente pensante dovrebbe avere verso
un cinema svincolato dalle sovrastrutture industriali e formali che troppo
spesso lo circondano, giustificato dall’inevitabile curiosità di vedere
un’opera quasi interamente realizzata in mare aperto e con soli due attori.
La dichiarazione d’intenti da parte di Chris Kentis è
inequivocabile, i primi quindici
minuti di film sono realizzati con uno
stile volutamente e smaccatamente “amatoriale” (vedi The Blair witch
project), tanto che viene spontaneo pensare, che un giorno chissà, anche
il filmino delle nostre vacanze potrebbe diventare un film. La ricerca di
una dimensione realistica viene ampiamente alimentata dalle immagini
iniziali del film e quando Daniel (Daniel Travis) e Susan (Blanchard Ryan)
chiacchierano nella loro stanzetta, tornano alla mente non senza qualche
imbarazzo e con le dovute proporzioni, Jean Paul Belmondo e Jean Seberg in
Fino all’ultimo respiro di J.L. Godard, o meglio, forse in quelle
immagini è soddisfatto proprio quel desiderio di cui sopra, l’illusione di
aggrapparsi quanto più possibile a delle immagini che non siano
documentario o asettica fiction, ma semplicemente vere, vitali e
personali (proprio come quelle di Godard).
Purtroppo però, l’illusione del vero viene meno man mano che
il film si avvicina al centro della nostra curiosità: la coppia dispersa nel
mare circondata dagli squali e dalle loro inquietudini.
Qualcosa
s’inceppa e l’impressione generale è che sia tutto forzato e quasi
ricercato. Il sol pensiero di ritrovarsi in quella stessa situazione fa
rabbrividire ma le immagini non sembrano in grado di accompagnare lo
spettatore in quel viaggio dell’emozione più viscerale che è la paura. Così,
l’immedesimazione rimane l’unico appiglio per provare quello che il film
prometteva ma che non riesce a mantenere: la tensione del caso. Difatti
piacerà, più o meno, secondo la propensione d’ogni singola persona
all’immedesimazione, anche se, la sua reale riuscita artistica va misurata
sulle specificità formali.
In questo senso, Open water
palesa il suo più grande
difetto proprio nel modo in cui tradisce i suoi intenti. La pretesa di
raccontare nel modo più vero e “umano” possibile l’accaduto (una storia
vera che non può, tra l’altro, esserlo del tutto) viene a scontrarsi con la
vanità dell’autore che da uomo si fa “Dio” palesando la sua presenza.
Tramonti, lune e cartoline varie (in sostanza tutto ciò che sfugge la scelta
estrema di rimanere dentro il campo visivo dei due protagonisti) inserite
all'interno di una struttura “amatoriale”
riportano lo
spettatore-critico alla realtà, e la realtà si chiama inganno. L’inganno di
un’opera che si traveste da povera nel tentativo di codificare il linguaggio
amatoriale e si manifesta ricca nel modo in cui ne svilisce la
caratteristica primaria: l’illusione del reale. Open Water non è
stilisticamente coerente e questo non aiuta di certo a creare quello per cui
era stato pensato: una progressiva tensione emotiva.
Davide Cavallo |