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Regia: Monica Lisa
Stambrini |
Sceneggiatura:
Monica
Stambrini, Elena Stancanelli e Anneritte Ciccone (tratto dall’omonimo
romanzo di Elena Stancanelli) |
Fotografia: Fabio
Cianchetti |
Montaggio:
Paola Freddi |
Scenografia: Alessandro
Rosa |
Musiche: Massimo
Zamboni, Luca Rossi, Simone Filippi |
Interpreti: Maya Sansa,
Regina Orioli, Mariella Valentini, Luigi Maria Burruano, Chiara Conti,
Marco Quaglia, Pietro Ragusa, Osvaldo Livio Alzari |
Produzione: Galliano Juso
per Digital Film con la collaborazione di Tele + |
A
Benzina non rendono giustizia né
il trailer (ma quand’è che
lasceranno realizzarli ai registi?), né la locandina. In fin dei conti
neanche il titolo, su cui però si può lasciar correre: l’insigne stratega
Stanley Kubrick insegnava che non si può fare a
meno di rispettare il nome dell’opera letteraria che si traspone se questa
ha la forza di fare da cassa di risonanza al film. A quanto pare il romanzo
omonimo di Elena Stancanelli i suoi lettori li ha avuti, ed il titolo
originale è giustamente rimasto. Dunque B-E-N-Z-I-N-A: apparentemente
efficace (breve, incisivo, maschera verbale di un surrogato industriale che
si respira come suono post-moderno), ma che dopo la visione non può che
generare un certo disagio. Perché? Perché assieme ai due elementi sopra
citati preannuncia una pellicola che sembra essere un infiammato
on the road lesbico,
trasgressivo, e per di più pallosamente femminista e generazionale (oltre
che l’ennesima pecora nera della covata innescata da
Thelma e Louise). Per fortuna,
non è così.
La
chiara chiave di lettura la dà la colonna sonora di
Massimo Zamboni (ex C. S. I.): tenera, malinconica, oscura. Perfetta
partitura del moto circolare, fisico e mentale, delle due protagoniste
(amanti ventenni che tentano di raggiungere la Tunisia senza nemmeno
riuscire ad oltrepassare il raccordo anulare che circonda la capitale). Una
sorta di bad trip, verrebbe
da pensare, facilmente comunicabile anche dal solo
plot narrativo: Stella (Maya
Sansa) e Lenni (Regina
Orioli) gestiscono una pompa di benzina (desolata e
deserta come nel bel mezzo del deserto californiano). Si amano, si baciano,
si toccano. Un giorno però si ritrovano per errore ad essere responsabili
della morte dell’irruenta madre di quest’ultima, piombata nella loro terra
di frontiera per riportare un po’ di sano buon senso nella testa della
figlia svampita. Per sfuggire alle conseguenze dell’omicidio le due
sventurate hanno a disposizione una Volvo, venti milioni trovati indosso al
cadavere e l’idea
di arrivare a Napoli per partire verso l’Africa: ovvero un’intera
notte a proprio vantaggio per coprire un viaggio della salvezza che
necessita solo di due ore di autostrada, senza (per di più) che esista anima
viva a conoscenza del misfatto. Apparentemente facile. Nonostante tutto, il
loro percorso parte e ritorna in continuazione e l’unico approdo sembra
essere il punto d’inizio, come in uno di quei sogni dove la fuga è resa
impossibile dalle gambe che si fanno sempre più pesanti. Strano davvero, ed
inaspettatamente interessante: un itinerario semplice che però viene reso
sempre più lento e complicato da una sorta di calamita invisibile.
I pochi
personaggi non sono netti (buoni o cattivi) ma lucidamente fuori fuoco (come
le persone reali), sempre efficacemente raccontati e recitati. E la regista
(esordiente nel lungometraggio) risulta brava nel circondare il racconto di
atmosfere piuttosto che di descrizioni, non allontanandosi mai con la
macchina da presa dai pochi attori che fanno il film, venando di
un’intelligente ambiguità tutti i rapporti umani che abbozza sulla
pellicola.
Nota
dolente è, però, la tendenza ad affidarsi talvolta a soluzioni linguistiche
poco efficaci e personali (su tutte la sterile e troppo
lynchiana simbologia del fuoco)
e la mancata capacità di sterzare con pronto riflesso di fronte ad alcune
leggerezze narrative che rischiano più di una volta di far inceppare la
dignità degli avvenimenti.
Comunque
un buon esordio, che lascia ben sperare per il futuro. Certo, le eroine di
Ridley Scott riemergono a galla (in un finale
un po’ stonato) e si respira anche troppo l’aria di un certo cinema
americano (il già citato
Lynch o i primissimi
fratelli Coen): ma in fondo si tratta di fantasmi buoni, muse ispiratrici
nel complesso ben metabolizzate, che solo raramente oltrepassano la linea
rossa del lecito.
Antonello Schioppa
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