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BENZINA (Italia, 2002) |
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A Benzina non rendono giustizia né il trailer (ma quand’è che lasceranno realizzarli ai registi?), né la locandina. In fin dei conti neanche il titolo, su cui però si può lasciar correre: l’insigne stratega Stanley Kubrick insegnava che non si può fare a meno di rispettare il nome dell’opera letteraria che si traspone se questa ha la forza di fare da cassa di risonanza al film. A quanto pare il romanzo omonimo di Elena Stancanelli i suoi lettori li ha avuti, ed il titolo originale è giustamente rimasto. Dunque B-E-N-Z-I-N-A: apparentemente efficace (breve, incisivo, maschera verbale di un surrogato industriale che si respira come suono post-moderno), ma che dopo la visione non può che generare un certo disagio. Perché? Perché assieme ai due elementi sopra citati preannuncia una pellicola che sembra essere un infiammato on the road lesbico, trasgressivo, e per di più pallosamente femminista e generazionale (oltre che l’ennesima pecora nera della covata innescata da Thelma e Louise). Per fortuna, non è così. La chiara chiave di lettura la dà la colonna sonora di Massimo Zamboni (ex C. S. I.): tenera, malinconica, oscura. Perfetta partitura del moto circolare, fisico e mentale, delle due protagoniste (amanti ventenni che tentano di raggiungere la Tunisia senza nemmeno riuscire ad oltrepassare il raccordo anulare che circonda la capitale). Una sorta di bad trip, verrebbe da pensare, facilmente comunicabile anche dal solo plot narrativo: Stella (Maya Sansa) e Lenni (Regina Orioli) gestiscono una pompa di benzina (desolata e deserta come nel bel mezzo del deserto californiano). Si amano, si baciano, si toccano. Un giorno però si ritrovano per errore ad essere responsabili della morte dell’irruenta madre di quest’ultima, piombata nella loro terra di frontiera per riportare un po’ di sano buon senso nella testa della figlia svampita. Per sfuggire alle conseguenze dell’omicidio le due sventurate hanno a disposizione una Volvo, venti milioni trovati indosso al cadavere e l’idea di arrivare a Napoli per partire verso l’Africa: ovvero un’intera notte a proprio vantaggio per coprire un viaggio della salvezza che necessita solo di due ore di autostrada, senza (per di più) che esista anima viva a conoscenza del misfatto. Apparentemente facile. Nonostante tutto, il loro percorso parte e ritorna in continuazione e l’unico approdo sembra essere il punto d’inizio, come in uno di quei sogni dove la fuga è resa impossibile dalle gambe che si fanno sempre più pesanti. Strano davvero, ed inaspettatamente interessante: un itinerario semplice che però viene reso sempre più lento e complicato da una sorta di calamita invisibile. I pochi personaggi non sono netti (buoni o cattivi) ma lucidamente fuori fuoco (come le persone reali), sempre efficacemente raccontati e recitati. E la regista (esordiente nel lungometraggio) risulta brava nel circondare il racconto di atmosfere piuttosto che di descrizioni, non allontanandosi mai con la macchina da presa dai pochi attori che fanno il film, venando di un’intelligente ambiguità tutti i rapporti umani che abbozza sulla pellicola. Nota dolente è, però, la tendenza ad affidarsi talvolta a soluzioni linguistiche poco efficaci e personali (su tutte la sterile e troppo lynchiana simbologia del fuoco) e la mancata capacità di sterzare con pronto riflesso di fronte ad alcune leggerezze narrative che rischiano più di una volta di far inceppare la dignità degli avvenimenti.
Comunque un buon esordio, che lascia ben sperare per il futuro. Certo, le eroine di Ridley Scott riemergono a galla (in un finale un po’ stonato) e si respira anche troppo l’aria di un certo cinema americano (il già citato Lynch o i primissimi fratelli Coen): ma in fondo si tratta di fantasmi buoni, muse ispiratrici nel complesso ben metabolizzate, che solo raramente oltrepassano la linea rossa del lecito. Antonello Schioppa
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