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A CANNES, A CANNES! di Nise No  Nise.No@libero.it

 

Waiting Men di Masao T. HonoluluWaiting men non è nel programma. Non si vede al Grand Théâtre Lumière, né alla Salle Bunũel, tantomeno alla Salle de Presse. È un piccolo film di trenta minuti scritto/diretto/interpretato dal mio amico Masao T. Honolulu che parla di esecuzioni sommarie, mutande sporche, seppuku e drammatica eleganza della ritualità lungo la dura strada del diventare adulti. L’ho mandato giù in albergo (insieme al jet-lag), in una copia ‘casalinga’ in DVD e alla fine ho detto: "È bellissimo, Masao. Non ci ho capito niente." Lui si è illuminato in volto, gli è andata meglio di quando due giorni fa si era messo in testa di farlo vedere ai fratelli Wachowski senza riuscire ad avvicinarsi meno di venti metri agli autori di Matrix Reloaded. Poco c’è mancato, anzi, che due bruti della security in spolverino nero seppia gli rifacessero i connotati fuori dal Palais.

Cannes, résidence du Festival: longs métrages, courts métrages, cinéfondation, un certain regard per le bellezze che brulicano nel formicaio.

Sono arrivato tardi per vedere l’apertura hors compétition di Fanfan la tulipe e Ce jour-là di Ruiz (en compétition, leggo da qualche parte). Tardi per Les Égarés di Téchiné (amori bisex, Emmanuelle Béart e Stukas tedeschi nella Francia del 1940) che in ogni caso non vedrei neanche in punto di morte e per Qui a tué Bambi? di Gilles Marchand, interessante almeno nel titolo in omaggio ai Sex Pistols (e poi è hors compétition!). In pratica, ho saltato un bel po’ di cose forse perché ho un talento spiccato nell’arte del perdersi/perder tempo, forse semplicemente per salvare gli occhi.

È Mimì Miyagi, stella di prima grandezza dell’hard asiatico la ragazza che sta parlando con Gus Van Sant? Se fosse Mimì verrebbe di certo a salutarmi. Una Elephant di Gus Van Santvolgarissima controfigura, ci scommetto. Van Sant porta qui Elephant (en compétition, stesso titolo dell’ultimo cd dei White Stripes), 81 minuti ispirati dal massacro di Columbine con Elias McConnell, John Robinson e Alex Frost. Dichiara di aver visto il documentario di Michael Moore e di essere partito con questo progetto dopo un servizio girato per la televisione sulla tragedia scolastica del 1999. Durante la conferenza stampa, un critichino italiota dice ad un altro critichino italiota: "Téchiné ha fatto un CA-PO-LA-VO-RO!", poi i due si mettono a parlare fitto di calcio, simulatori di sci da fondo e della necessità di riferirsi al cinema di Neri Parenti come "Corpo Transitivo" nel quale poter leggere autopticamente tutta la società italiana presente, passata e soprattutto futura.

Ho evitato come il colera Swimming pool di Ozon. Mi sono addormentato intorno al 10° minuto di Dogville di Lars Von Trier (dura 170’ ed è en compétition). Al risveglio, Masao mi ha spiegato che Grace (Nicole Kidman) una donna in fuga da un oscuro Nicole Kidman in Dogville di Lars Von Trier passato, trova rifugio a Dogville, villaggio isolato/desolato tra le Rocky Mountains. Gli abitanti accettano di proteggerla e intanto lei lavora per loro. Ma è dura: Grace impiega poco a capire che la bontà è un’opinione e il povero Masao è crollato a sua volta a ronfare in poltrona superata eroicamente la prima metà del film. Peccato, eravamo lì per rivedere sul grande schermo Lauren Bacall. Ci sono anche James Caan e Ben Gazzara, però...

A cena all’Escarpit con la sosia di Mimì che si è portata dietro una sosia di Mandy Bright e una mulatta platinata dal viso dolcissimo di nome Destiny. Mi trastullo un po’ con l’idea di invitarle tutte e tre in camera per una session Polaroid ma Destiny ha un appuntamento con un produttore danese, la finta Mandy minaccia di collassare in pubblico dopo aver palesato qualche difficoltà psicomotoria al terzo bicchiere di Ferrari Remuage e Mimì (in realtà si chiama Ayako), vista da vicino non si rivela troppo in carne.

Arrivederci, ragazze. Sento già la mancanza del lungo abito rosso passione di taffetà indossato da Destiny: perfetta backdoor beauty con qualcosa di antico nel solco. Masao è triste, mi confessa che qualora non dovesse trovare un modo per proiettare Waiting men au Marché du Film, prenderà in seria considerazione il proposito di autoevirarsi in terra straniera. Prima però darebbe un’occhiata al thriller geologico con paesaggio australiano Japanese story di Sue Brooks e a The Last customer, il corto in digitale di Nanni Moretti sulla chiusura di una vecchia farmacia italo-americana dalle parti di Manhattan Place, a New York. Ordino un altro Glenfiddich. Dieci minuti più tardi, Masao torna sconvolto dalla toilette del ristorante e mi fa: "Ho pisciato tra Clint Eastwood e Wim Wenders!"

Abbiamo saltato la proiezione delle 22.30 di Carandiru di Babenco sul grande penitenziario di San Paolo del Brasile che nel 1992 fu al centro di una drammatica rivolta domata nel sangue. Masao è incuriosito da Akarui Mirai di Kiyoshi KurosawaAkarui Mirai di Kiyoshi Kurosawa con Tadanobu Asano, Joe Odagiri e Takashi Sasano. Io vorrei vedere le versioni restaurate di Mildred Pierce di Michael Curtiz e de Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, The Brown Bunny di Vincent Gallo, poi Easy riders, raging bulls, il documentario di Kenneth Bowser sul cinema americano degli anni ’70 con interviste a Roger Corman, Dennis Hopper, Richard Dreyfuss, Peter Bogdanovich e altri. Mi terrò a prudente distanza da The Tulse Luper suitcases-Part 1 di Greenaway, Pere et fils di Alexander Sokurov e dalla copia restaurata de La Marseillaise di Jean Renoir (non ho mai capito tutta questa venerazione verso Renoir, giuro!). So anche che in questo festival, come in tutti gli altri, il cinema non sarà proprio in cima alla lista dei miei pensieri.