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Regia:
Brian De Palma |
Interpreti:
Rebecca Romijn-Stamos, Antonio Banderas, Peter Coyote, Eriq Ebouaney,
Edouard Montoute, Rie Rasmussen, Thierry Fremont |
Soggetto e
sceneggiatura: Brian De Palma |
Fotografia:
Thierry Arbogast |
Montaggio:
Bill Pankow |
Scenografia:
Anne Pritchard |
Costumi:
Olivier Beriot |
Musiche:
Ryuichi Sakamoto |
Produzione:
Tarak Ben Ammar, Marina Gefter |
Durata:
112’ |
Paese:
Francia Anno:
2002 |
Distribuzione:
Medusa |
Sito ufficiale:
www.femmefatalethemovie.com |
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Schermo su schermo: via dalla necrofilia cinefila, via dal cinema che cita
se stesso all’infinito. Con un déjà vu pulsionale, da insaziabile
mangiatore di celluloide, Brian De Palma imbocca il sentiero di
Lynch per sbucare nei dintorni di
Mulholland
Drive.
Il
primo tassello del puzzle è nelle immagini che accompagnano i titoli di
testa, con Double indemnity di Billy Wilder
(sceneggiato da Raymond Chandler) che passa in tv mettendo virtualmente
l’una di fronte all’altra Barbara Stanwyck e
Rebecca Romijn-Stamos. Il falso trabocca, fuoriesce inevitabilmente dallo
schermo/vasca: cinquantotto anni di distanza tra le due
pellicole
e il verosimile (noi) alle spalle della Romijn-Stamos,
dicono che lo schermo sarà sempre troppo piccolo per contenere il sogno.
Diventa (neanche tanto) paradossalmente più inadeguato nello scarto tra il
lenzuolo appeso nella sala parrocchiale e lo splendore asettico hi-tech
delle odierne multisale. È un problema di spazio e De Palma, come pochi
altri ormai, ha capito che col cinema si può – si dovrebbe – solo giocare,
forzare la mano, spingersi fino all’aldilà della simulazione e scoprire le
carte, ingannare chiunque accampi pretese per il solo fatto d’aver pagato un
biglietto.
“Che cazzo fai?” dice Black Tie spegnendo con
stizza il televisore. Lo dice a noi, più che alla complice del colpo ad alto
rischio sorpresa a perder tempo davanti a un film. Poco dopo, lo vedremo
aprire teatralmente una tenda-sipario: è una finestra, un altro schermo, una
vista privilegiata sulle mille luci della Croisette. La macchina da presa
avvolge tutto creando un risucchio, staccandoci dalle poltrone. Si precipita
in un vortice chiassoso di apparenza/sfarzo/glamour/apparecchi fotografici
in azione. La febbre del circo-cinema. Gli ammiccamenti e le chiacchiere
intorno agli abiti, alle posture delle dive ‘vestite per ucciderè.
Dalla parte di Méliès, proprio come in Mission to
Mars, Femme fatale osa togliere la corrente a Cannes,
nella sala-tempio Lumière, per liberare tutti i guardoni. L’occhio ha fame
di dettagli; accetta il tema abusato del doppio
come
situazione-base, si perde in un noir cartoonizzato, tra pallottole che non
uccidono, ecchimosi finte, resurrezioni inaspettate. L’occhio approfitta di
qualsiasi buco, di ogni sorta di spiraglio, pur di avere accesso alla
potenza dell’illusione. Vuole Laura/Lily, non più (non solo) ‘body doublè
ma corpo moltiplicato in una legione di dark ladies, femmine folli,
Kim Novak, Eva Kant. Quanta fatica per la
Romijn-Stamos, oggetto del desiderio sul patinatissimo GQ, perfetta
semisconosciuta plasmata ad arte da De Palma come già accadde a
Melanie Griffith durante le riprese di
Omicidio a luci rosse. Lei è la ladra-puttana, la manipolatrice, la
sirena che ammalia e distrugge. Ha tutto in testa: l’intero film è una cosa
che esplode violentemente nella sua testa. Il McGuffin, come l’avrebbe
chiamato Hitchcock, è un vestito da 10 milioni
di dollari che copre a stento le grazie di una modella dalle gambe
chilometriche. Il testimone ingenuo, accidentale, ha i tratti fumettistici
di un paparazzo con velleità artistiche frustrate. Banderas, privo del
fastidioso alone di macho latino, fa il comprimario eccellente (a Hollywood
non l’avrebbero mai permesso, ma stavolta i capitali sono europei),
ritagliandosi un rettangolino appena più ampio di quello occupato da
Peter Coyote. Gira in moto nel quartiere di
Belleville, cattura immagini destinate a tappezzare i muri di Parigi,
istantanee tanto clamorose da non rivelare alcunché (chi è davvero la donna
ritratta?) e di sicuro non si è mai posto domande circa la fragilità tutta
maschile derivante dall’assenza di segreti. È vulnerabile, nella sua ricerca
del tassello mancante (lavora da anni ad un grande collage hockneyano di una
piazza di Belleville) o del rimedio ai guai che ha causato alla consorte
dell’ambasciatore americano.
Quando
è potente, anarchica come nei sogni, la seduzione ammanetta il senso, le
concatenazioni logiche, costringendo l’amante/avversario ad abbassare la
guardia. Nella sequenza della bettola in riva alla Senna, Laura/Lily fotte
due maschi prima e dopo averli costretti a battersi per lei: li spinge sul
baratro del ridicolo in un esercizio di neutralizzazione rituale dove
l’unico vincitore è l’officiante.
Possibilità di scampo azzerate: con Femme fatale, il sessantaduenne
Brian De Palma cambia la funzione dello
schermo da superficie di riflessione a superficie di assorbimento. Questa è
magia.
(N.G.D’A.)
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