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Hulk |
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L’ago di una siringa buca la carne ed inietta in un corpo umano sostanze che ne modificheranno il DNA, la sostanza ed il senso. Molecola nella molecola, un corpo genetico inglobato in un altro ed un altro ancora. Da questo presupposto sostanziale Ang Lee approda ad una soluzione visiva che trasforma l’immagine in un’evidente emanazione dello sconvolgimento genetico in atto. Gli stacchi si trasformano in veloci zoommate che ci restituiscono un vago senso di penetrazione, o ancora, l’inquadratura si fraziona in immagini nelle immagini che ci raccontano l’inizio e l’approdo di un viaggio cinematografico che non è altro che la metafora di un percorso esistenziale. Ang Lee punta tutto su questo, sull’umanizzazione di un personaggio fumettistico attraverso percorsi psicologici ed emotivi (la prima trasformazione di Hulk avviene dopo circa 45 minuti). In questo arco di tempo, il film, sembra costruirsi su un’inevitabile attesa (della rabbia e della conoscenza di se stessi) determinata da un trauma infantile (oltre che da uno sconvolgimento genetico) sempre incombente e sottilmente presente. Se con Spiderman Raimi, trascurando l’introspezione, ci narra di un eroe umanizzato perché comunque inserito nella società (combattendo il male per il bene comune), con Hulk ci troviamo di fronte ad un mostro che non sa di esserlo e che non può appartenere agli altri nella misura in cui non si appartiene. Siamo alla genesi di un mostro, o un eroe, laddove tutto è possibile. Si potrebbe dire a questo punto che Hulk sia un film riuscito ma non si può, o non del tutto. Gli intenti autoriali di Lee, per la verità non sempre efficaci, si scontrano presto con una lacerazione visiva e formale, ahimè, indigeribile. Nel momento esatto in cui, in seguito ad un sentimento di rabbia, Bruce Banner si trasforma in quella massa gigante di colore verde che noi tutti conosciamo con il nome di Hulk, la tecnologia digitale si appropria e rompe gli schemi di un film fino ad allora apprezzabile.Dopo il tentativo, seppur con freddezza ed eccessivo distacco, di coinvolgere lo spettatore all’interno dei tormenti esistenziali di un uomo traumatizzato nonché "modificato", l’uso, e di conseguenza l’incontro, con delle immagini da video-gioco, annullano qualsiasi possibilità di verosimiglianza e partecipazione al film. In un certo senso i fotogrammi in digitale rappresentano il confine all’interno del quale l’autore (Ang Lee) incontra il commercio (Hollywood). Peccato, perché Ang Lee avrebbe l’istinto del vero autore nella capacità di prevaricare le regole proprie del cinema ("scavalcando il campo" sempre e comunque in momenti emotivamente significativi), e dimostra di avere un vago senso di corrispondenza tra forma e contenuto. Ad ogni spettatore la libertà di scegliere se spendere, o no, 5 euro per un film che risulta inguardabile in alcuni punti, discreto in altri e geniale in alcuni momenti.
Davide Catallo |
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