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LOST IN TRANSLATION |
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Metti due americani a Tokyo vittime del jet lag, immersi in un paesaggio iperreale, le rispettive vite sospese a sessanta piani d’altitudine a cinque stelle. Tagline: "Everyone wants to be found". Alieni yankees su un pianeta tanto più alieno quanto totalmente occidentalizzato (un newyorkese o un texano che faccia del razzismo culturale nel Sol Levante è a dir poco ridicolo). La storia non c’è: Bob, il vecchio attore al tramonto al quale hanno offerto due milioni di dollari per reclamizzare una marca di whisky e Charlotte, ventenne sposa infelice di un fotografo di grido (Giovanni Ribisi), vagano insonni per i corridoi del gigantesco Park Hyatt hotel, poi tra le strade del quartiere Roppongi, le orecchie martoriate da karaoke e rumori di videogames, gli occhi abbacinati da scenografie glamour-decadenti assemblate con parti varie di feticci consumistici.Giapponesi, strana gente. Sushi, hamburger, sakè, inchini, bento, hashi, manga, ikebana, arigatò, apparecchi fotografici che spuntano dappertutto, quattro diversi tipi di alfabeti basati sui concetti, televisione-spazzatura, kimono, bodi-kon bar,![]() Incastrati. Straniti. In crisi. Si incontrano e si piacciono (ma vanno a letto senza fare niente, mica vogliamo dare un’immagine politicamente scorretta!). Nel cuore della
notte, Bob riceve fax intercontinentali dalla moglie: è importante decidere
al più presto il colore della moquette da applicare nello studio. Dalle
finestre della sua stanza, Charlotte contempla i grattacieli mentre lo
sconosciuto che ha sposato due anni prima ronfa beatamente. Bob guarda alla
tv un giovane Bill Murray versione doppiata in giapponese. Bob gira uno spot
con un regista troppo esigente che gli chiede di scandire meglio la frase:
«È tempo di relax, è tempo di Santori». Il regista sembra un invasato,
l’attore fa del suo meglio per offrire, come richiesto, un’espressione "più
intensa". Charlotte piange al telefono. Bob riceve la visita in camera di
una geisha un po’ stagionata (ok, anche lui è già oltre il mezzo secolo) che
gli ordina di strapparle le calze (causa imperfetta pronuncia, lui capisce
"lappa le mie calze" ma non ha voglia di sprecarsi in un senso o
nell’altro). Charlotte aggancia Bob, gli offre da bere, lo porta a conoscere
Charlie Brown e la sua cricca di sāfā (appassionati di surf). Charlie
è un
"Charlie don’t surf!", verrebbe da gridare alla fine di 102 minuti di cartoline wendersiane (l’ultimo Wenders afasico, imbolsito come un Murray che si rifà alla maschera grave/rassicurante di Jack Lemmon). Commedia amara-delicata? Applausi a Venezia? Gags esilaranti? Bah! Le canzoni, quelle sì, sono belle: Girls dei Death In Vegas; The State wère in dei Chemical Brothers; Alone in Kyoto degli Air; Just like honey eseguita dai Jesus & Mary Chain un attimo prima che partano i titoli di coda e lo score scritto appositamente da Kevin Shields dei My Bloody Valentine. In fatto di musica, i gusti di Sofia superano di gran lunga quelli di Roman, fan degli Strokes, a sua volta regista, figlio di quel...naaah, lasciamo perdere.
(N.G.D’A.) |
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