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PINOCCHIO

 

Regia: Roberto Benigni

Interpreti: Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Carlo Giuffrè, Kim Rossi Stuart, Giuseppe Barra, Lando Buzzanca, I Fichi D'India

Soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Cerami e Roberto Benigni  dal libro Pinocchio di Carlo Collodi

Fotografia: Dante Spinotti

Musiche: Nicola Piovani

Montaggio: Simona Paggi

Produzione: Gianluigi Braschi, Elda Ferri

Distribuzione: Medusa

Nazionalità:Italia  Anno: 2002

Durata: 108'

 

Abbiamo difeso molto La Vita è bella, pur non considerandolo un capolavoro. Lo abbiamo fatto per la straordinaria poeticità, per la sua carica emotiva, per una sceneggiatura ottimamente ribaltata su se stessa. Non si può chiedere ad un critico di non difendere le proprie lacrime. Ma non abbiamo aspettato con trepidazione il nuovo film di Roberto Benigni, non ci attendevamo nulla di particolare dal suo Pinocchio. Questo non per via di un preconcetto nei suoi confronti, ma sulla base di un’attenta analisi del suo cinema, perché è di cinema che stiamo parlando, di linguaggio, estetica dell’immagine, di regia e nulla più.
Lo diciamo subito e senza peli sulla lingua, Roberto Benigni, peraltro comico geniale, noi non l’abbiamo mai considerato un grande regista. Neppure il suo miglior film (La Vita è bella) si genera su una visione autoriale dell’immagine prima e della realtà dopo, è solo espressione e frutto di un’attenta modulazione dell’umano sentire.
Quest’ultimo lavoro non fa altro che confermare quanto suddetto Kim Rossi Stuart in Pinocchio di Benigni nei panni di Lucignoloe suggerirci altre inquietanti riflessioni. Verrebbe da non bocciarlo del tutto questo Pinocchio, belle le scenografie di Danilo Donati, discreta la fotografia di Dante Spinotti (a parte una Toscana un po’ troppo: “Modello cartolina”), un cast nostrano all stars azzeccato in parte e bla...bla...bla. Ma il giudizio critico va contestualizzato sulla base dei mezzi espressivi a disposizione, e più che esaltare ciò che di positivo v’è in quest’ opera viene spontaneo denunciarne le mancanze, le possibilità non sfruttate e l’incapacità d’inventarsi qualcosa in grado di aggiornare una storia già rappresentata in passato da altri autori. La trasposizione filmica di una fiaba non può che puntare al conseguimento di quella verità umana che intrinsecamente essa contiene: la verità delle emozioni. Pinocchio è un personaggio onnicomprensivo di alcune tra le caratteristiche più intimamente fondanti del popolo italiano. In Pinocchio convivono, spesso in contraddizione fra di loro, l’indole monellesca, arruffona e un po’ furbesca dell’italiano, mediata, castrata e affiancata dal senso del dovere e il timore del peccato di derivazione cattolica. Geppetto prima di essere un falegname è un padre incapace di governare il proprio figlio, Pinocchio prima di essere un simpatico burattino è un figlio che tradisce tutti coloro che lo amano ed incarna in sé quel senso di colpa tipicamente mammone dell’italiano medio. Geppetto è un padre che soffre e sogna, è un genitore sconfitto che si logora nel fisico e nell’anima alla ricerca del proprio figlio e si rigenera al suo ritrovamento. Soffre anche Pinocchio ed anche lui si rigenera, fino a diventare un bambino normale e non più un burattino, al ritrovamento-riconoscimento della figura paterna. Pinocchio è, come tutte le fiabe, una storia che espone la drammaticità della vita e che trova la sua chiusa nella gioia di viverla.
Dov’è tutto questo nel film di Benigni? Dov’è la solitudine di Geppetto, le sue lacrime, la sua gioia? Dov’è il senso di colpa di Pinocchio, la sua di solitudine, l’evoluzione che dal legno lo porterà alla carne? Dove sono le emozioni, la verità e la sincerità?
Il film procede stancamente, è una fredda esposizione degli episodi, senza anima né poesia, anima assente anche nelle interpretazioni di Carlo Giuffrè nei panni di Geppetto, che nel tentativo di trovare una chiave di lettura personale si allontana inesorabilmente dal senso del Nicoletta Braschi in Pinocchio di Benigni nei panni della Fata Turchinasuo personaggio, e soprattutto in Nicoletta Braschi nei panni della fata turchina, assolutamente fuori luogo, improponibile; la fata se da una parte simboleggia una sorta di spirito guida (la Vergine Maria?) dall’altra è la favolosa visione di una figura materna, estremizzando il personaggio, possiamo vederla come la madre adottiva di Pinocchio. Ebbene, qualcuno ha avvertito la Braschi della complessità del suo ruolo? Qualcuno s’è degnato di dirle che una madre non si limita a ridere mostrando i denti o non mostrandoli? Ne dubitiamo visto i risultati.
Dov’è il cinema? Non v’è traccia di una regia, non una scelta formale che rimandi a delle significanze poetiche e prolunghi oltre il visibile i significati del filmato (unica eccezione nel finale, quando l’ombra di un Pinocchio umanizzato si rifiuta di entrare a scuola).
Hanno scritto (Federico Chiacchiari n.d.r.) che Benigni non fa Pinocchio ma lo è, noi pensiamo che sia vero, è proprio così, Benigni è Pinocchio, ed è a suo agio nei panni di un personaggio che rispecchia esattamente la sua poetica, ma è incapace di raccontarcelo, di trasmettercelo, mentre lui vive sinceramente questo bischero sognante ed un pò ingenuo, lo spettatore è impossibilitato a viversi il film.
A Benigni, nell’incapacità di risolvere la materia filmica attraverso la regia, non è riuscito il prodigio attuato in La Vita è bella: costruire il film attraverso la regia delle emozioni.
È riuscita invece la realizzazione di un Kolossal planetario che incasserà molto e che rappresenterà l’Italia in tutto il “globo”, ma quale Italia? Non di certo l’Italietta che a fatica cerca di controbattere il potere economico-culturale del cinema americano. Questo è un film realizzato a Hollywood, che non è un luogo fisico ma mentale, una modalità di pensiero e di realizzazione, questo è un film che parteciperà allo steso banchetto di nozze in cui presenzierà Spider-man: la notte degli Oscar.
Fra un mese riproporranno nelle sale Daunbailò, film culto del cinema indipendente americano firmato Jim Jarmusch, con un Roberto Beningni attore, anarchico ed irrisestibile; per molti sarà motivo di definitiva consacrazione, a noi stimola un’ultima domanda: dov’è quel Benigni?

 

Davide Catallo