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PROVA A PRENDERMI (Catch me if you can) |
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Non sembra neanche Spielberg. O forse sì, andando a ritroso nel tempo, fino ai primi anni Settanta di Duel e Sugarland express, possiamo ritrovare un’attenzione al film, al plot, agli attori, assolutamente pre-digitale simile a quella che si coglie in Catch me if you can. Il film ‘piccolo’, il filmino girato dopo l’ultimo effetto speciale aggiunto su Minority report, in attesa di supervisionare lo script definitivo per il nuovo Indiana Jones. Al Re Mida deve essere piaciuto di brutto il remake soderberghiano di Ocean’s 11. Deve essergli venuta voglia di mettere le mani su una commedia (truffa)utiana, una storia di furfanti nel mondo scintillante dei voli in prima classe e delle hostess che sembrano uscite dal paginone centrale di Playboy. La storia (vera) è quella di Frank il pirata sedicenne e dell’agente federale incaricato di dargli la caccia dagli States alla vecchia Europa. Frank è un bugiardo. Frank froda il governo degli Stati Uniti d’America. Frank fotte allegramente il sistema falsificando assegni e attestati di laurea, volando gratis e spacciandosi per pilota di linea, medico, avvocato. È un Peter Pan-Am-Pinocchio con il quoziente intellettivo di Hannibal Lecter (gusti culinari a parte). È il figlio di una famiglia che cade a pezzi per colpa del fisco: impara dal padre l’arte di soffiare fumo negli occhi del prossimo, insegue invano una madre accecata dal lusso e incapace di accettare dignitosamente la rovina. Frank pensa al riscatto: l’apparenza è tutto ciò che serve per salire in fretta i gradini della scala sociale nel paese del Grande Sogno. Basta volerlo e crederci fino in fondo, leggendo i fumetti o guardando Il Dottor Kildare e Sean Connery in 007. Guardatevi intorno: c’è chi si fa infinocchiare dal vecchio trucco delle tre carte, chi telefona ai maghi televisivi per prenotare un amuleto scacciasfiga, chi investe tutti i risparmi di una vita in quote societarie di fantomatiche imprese nel Belize. Frank vuole comprare una Cadillac a suo padre, portarsi a letto un po’ di gnocche vere, mettere in valigia un gruzzolo per la vecchiaia. È davvero così immorale? Spiace dirlo, ma nel piccolo film di Spielberg, Leonardo DiCaprio funziona meglio che in Gangs of New York. Ha il faccino della canaglia adolescente e, durante l’intera lavorazione, deve aver messo in naftalina la maschera romantica che lo ha reso famoso in tutto il mondo. E Hanks (sorpresa) è una spalla niente male. Per una volta, la faccia di legno di uno degli attori più sovrastimati di Hollywood non fa rimpiangere i soldi del biglietto. Non è Daniel Day-Lewis, perbacco: per sciogliere DiCaprio ci vuole un coach, non un peso massimo del cinema. Qui i grandi (Christopher Walken, Martin Sheen) hanno un posto riservato nella categoria ‘riserve speciali’. Sono i padri, le molle che spingono Frank ad andare avanti fino in fondo. Ai padri piace la storia del topolino che sopravvive trasformando la panna in burro. Per un po’, Frank riuscì a cavarsela più o meno in questo modo: un hacker ante-litteram, un maestro del bluff e dell’escapismo con qualcosa del giovane Orson Welles che a sedici anni riuscì a farsi accettare al prestigioso Gate Theatre di Dublino millantando una lunga esperienza a Broadway. Se non l’avessero incastrato, se non l’avessero costretto a servire il sistema (oggi il vero Frank tiene corsi alla sezione antitruffa dell’F.B.I. e ha brevettato assegni infalsificabili), chissà, gli U.S.A. avrebbero potuto avere un genio sulla poltrona presidenziale. (S.B.) |
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